Un miliziano filogovernativo appena ferito dai colpi sparati dai soldati del Califfo (Foto Alessio Romenzi/Capta)
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iordano Stabile racconta l’ultima difesa del Califfato a Sirte. Nella roccaforte dell’Isis la resistenza è affidata a nigeriani, ciadiani e sudanesi. Si difendono con autobombe e trappole esplosive dinanzi alle brigate di Misurata.
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A Sirte dove i giovani miliziani sfidano i mercenari del Califfo GIORDANO STABILE
L’ultima resistenza dell’Isis nella roccaforte è affidata a nigeriani, ciadiani e sudanesi Si difendono con autobombe e trappole esplosive dinanzi alle brigate di Misurata
Anche gli uomini in nero lo sanno. Tanto vale farla finita da soli e cercare di compiere stragi fino all’ultimo. L’arsenale di autobombe e cinture esplosive è ancora abbondante. Sono gli unici attacchi che mandano in panico i combattenti. Le auto kamikaze blindate con lastre d’acciaio spesse un paio di centimetri possono essere fermate solo da un colpo di cannone ben assestato o un missile da un F-18 statunitense. I mitra, i lanciarazzi portatili, gli Rpg, non bastano.
Mentre avanzano su una strada i militari piazzano vedette sui tetti, per anticipare l’allarme. Pochi secondi fanno la differenza fra vita e morte. Quando l’autobomba sbuca da un angolo le vedette urlano e si sbracciano. I combattenti lasciano la strada di corsa. A volte serve il sacrificio estremo. Come martedì, nel distretto residenziale Numero 1. Il kamikaze ha puntato un gruppo di soldati e di civili, alcuni medici. Un volontario di Misurata si è gettato con la sua macchina contro l’autobomba in corsa. L’esplosione l’ha ucciso sul colpo assieme al terrorista e ha ferito leggermente una decina di persone. Ma poteva essere un massacro.
L’inizio della fine della battaglia, cominciata a maggio, è stato il primo agosto. I raid americani, pochi, 48 in tutto, ma mirati sulle postazioni difensive inespugnabili da terra, hanno rotto lo stallo che durava da due mesi. Il gigantesco complesso Ougadougou, il distretto amministrativo dell’Unione Africana nei sogni di Gheddafi, diventato nel 2015 il quartier generale del Califfato in Libia, è stato preso in pochi giorni. Ora restano da espugnare tre quartieri residenziali, verso il mare.
I combattenti di Misurata, sono giovani, un’età media sui 25 anni, molti ragazzi, anche sedicenni. Hanno imparato ad avanzare lentamente, frenati da un pugno di ufficiali anziani, che tengono le redini delle katibe, i battaglioni di volontari che si sono formati dopo l’attacco dell’Isis ad Abu Ghrain a maggio. «Erano alle porte di Misurata, è come se avessero attaccato nostra madre». Migliaia di uomini si sono arruolati. Il governo di Unità nazionale di Fayez al-Sarraj ha mandato qualche rinforzo e benedetto l’operazione. Le armi sono arrivate dagli arsenali di Misurata, riempiti all’inverosimile con i saccheggi nelle caserme di Gheddafi durante la rivoluzione del 2011.
Ci sono blindati di fabbricazione jugoslava, sovietica, russa, brasiliana, semoventi con cannoni da 105 millimetri, vecchi carri T-62. E poi un numero infinito di «tecniche». I furgoncini con le mitragliatrici saldate sul pianale. In genere armi antiaeree da 14 e ½ e 23 millimetri, dal grande volume di fuoco. La tattica dei «ragazzi», nonostante gli sforzi degli ufficiali, è abbastanza primitiva. Un diluvio di colpi e razzi Rpg sull’edificio da conquistare e poi l’assalto.
Dove le case sono addossate si aprono aperture nei muri e si passa da una all’altra. Un’occhiata dentro la stanza da «bonificare» e poi dentro. È qui che i ragazzi subiscono le perdite maggiori. Booby traps. Mine collegate a un fil di ferro, un cavo, dentro un innocuo scatolone di cartone. Non ci sono reparti sminatori. Si va avanti a intuito e fortuna. Coraggio ce n’è in abbondanza ma gli oltre 300 morti in tre mesi, i 1400 feriti, hanno ridotto di un terzo la forza iniziale dell’armata di liberazione.
Resta alta la sorveglianza anche nei quartieri «bonificati» perché è sempre possibile un attacco a sorpresa dell’Isis (Foto Alessio Romenzi/Capta)
Le stime delle perdite dei jihadisti variano invece moltissimo, centinaia, forse mille. «Dentro», nei quartieri da espugnare, ce ne sono «da 200 a 800». I volti dei caduti hanno spesso la pelle scura. «Ciadiani, sudanesi, nigeriani». Sono stati recuperati alcuni passaporti a conferma. E poi molti tunisini, qualche libico. «Mercenari». Comunque gente addestrata, abituata a combattere sui fronti siriano, iracheno, afghano. Il contrario dei «ragazzi». E i civili? Qualcuno dice che «dentro» ne sono rimasti al massimo «dieci», altri «un centinaio». Sono un dilemma per i miliziani. Complici o vittime? I jihadisti saranno uccisi tutti, ma che cosa fare dei civili non è stato ancora deciso.
Ora che la battaglia sta per finire i rimpianti sono per le troppe perdite. Forse bisognava «chiedere prima» l’aiuto dei raid americani. La raccogliticcia aviazione di Misurata, qualche Mig-23, ha fatto quello che poteva. Raid in picchiata fino a bassa quota per sganciare bombe a caduta libera, imprecise. Un Mig, esposto al tiro delle mitraglie anti-aeree, è stato abbattuto.
I «ragazzi» comunque sanno di non avere debiti di riconoscenza. È «con il loro sangue» che hanno difeso mamma-Misurata ma anche l’Occidente dal più feroce esercito di terroristi che sia mai sorto in Medio Oriente. Fra tutti i Paesi europei le maggiori simpatie, nonostante il passato coloniale, sono per l’Italia. A Misurata prima del 2011 c’erano 68 imprese italiane e «davano tanto lavoro». Per gli eroi che stanno per tornare a casa la nuova battaglia sarà costruirsi un futuro.
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