Legittimamente alcuni lettori ci hanno obbiettato che in un nostro articolo “La Ministra Bongiorno contro la rimozione della prescrizione. L’opinione” si è utilizzato il termine “ministra” e non ministro.
In realtà era stato un dubbio che ci si era posti nello stilare l’articolo. Ma si era concluso di declinare al femminile anche i titoli che fino a pochi decenni fa erano appannaggio solo degli uomini che per questo sono tutti al maschile. D’altronde, le regole, tranne le geologiche leggi della Natura, le elaboriamo nel tempo culturalmente noi umani e pertanto si potrebbero anche progressivamente modernizzare.
Insomma, si era ritenuto, che ogni cosa si evolve e muta, specialmente nel mondo degli umani, altrimenti saremmo ancora sugli alberi. Fino al 19 secolo nella economicamente avanzata Inghilterra, la donna non aveva neanche il diritto ad esporre in pubblico le proprie conoscenze e pubblicazioni se non tramite un collega maschio. Purtroppo ancora in certe nazioni la donna non ha neanche il diritto di possedere beni se non avendo un maschio accanto pure che sia il figlio.
Siamo adesso nel 2018 e dopo un fantastico 20° secolo con cui si è iniziato finalmente in modo scientifico a conoscerci, seppure gli umani ancora rimaniamo parecchio misteriosi, si ritiene che sia civile declinare al femminile, al pari del maschile, come anche viceversa e senza neanche dimenticare che esiste pure una umanità lgbt.
Nel caso specifico, perché non indicare come ministra la donna che riveste questo ruolo. Seppure a ottobre 2018 delle deputate leghiste avrebbero dato come indirizzo alla Camera di non declinare più al femminile i termini ministra e consigliera, quindi riportarli a ministro e consigliere anche quando si tratta di una donna che li riveste. Ma ciò non necessariamente deve trovare d’accordo chi è per una civile uguaglianza anche sessuale.
Inoltre ci si era in qualche modo documentati e si è appreso che fin dalle scuole elementari il genere grammaticale dei termini che indicano esseri umani non si sceglie liberamente, bensì viene assegnato in base a un principio generale, per cui i termini che indicano gli esseri umani di sesso maschile sono di genere grammaticale maschile e quelli che indicano esseri umani di sesso femminile sono di genere grammaticale femminile. E aggettivi, pronomi, participi concordano in genere e numero con ciò a cui si riferiscono. Quindi: mio figlio fa il calciatore, lo psicologo, il ballerino, oppure: mia figlia fa la calciatrice, la psicologa, la ballerina. Sono meccanismi linguistici che usiamo quotidianamente, anche se forse poco consapevolmente del loro significato profondo e originario. Seppure ci è stato evidenziato come uno studioso o storico della lingua italiana potrebbe sollevarci tutto e il contrario poiché tante genesi sono andate perse.
L’uso di ministra, sindaca e rettrice non è quindi una sterile distorsione o “cacofonia” linguistica, ma contribuirebbe ad affermare, nel riconoscimento della differenza, la parità tra uomo e donna. E dal momento che il genere grammaticale femminile permette di identificare inequivocabilmente la persona cui ci si riferisce come una donna, permette anche di decodificare correttamente il messaggio e capire che si parla di una donna e non di un uomo. Anche per evitare fraintendimenti, quali: “il ministro è incinta”.
Si deve peraltro tenere presente che alla base del linguaggio c’è anche un secolare retaggio culturale rivolto tutto al maschile, che ormai persino inconsapevolmente è connaturato anche in molte donne, sicché altrettanto quasi involontariamente ci si inalbera nel momento in cui pensiamo persino di definire una donna con un titolo di genere grammaticale maschile per indicare il suo ruolo professionale o istituzionale, poiché appare addirittura oltraggioso che tali funzioni non siano maschili, ovverosia quasi siano «cose da uomini» usurpate dalle donne e alle quali non sarebbe ancora riconosciuta dalla società una totale autodeterminazione, quindi neanche linguisticamente.
Declinare al femminile significa invece agevolare nella nostra consapevolezza soggettiva e sociale che la donna può occupare a pieno titolo posizioni di rilievo o di responsabilità e questo rappresenta, oltre che una constatazione di fatto, un bel passo avanti nella costruzione del genere femminile. Come anche non va dimenticato che ci sono altre realtà umane che non si riconoscono in entrambi i generi maschili e femminili.
Provare quindi a non trincerarsi dietro dogma o feticci culturali oppure etici o religiosi, non può che giovare alla convivenza. Come anche al contrario spingersi ad improvvisi estremismi ideologici o identitari provoca solo dissidi e incomprensioni. Provare ad aprire dibattiti ma sereni, senza intellettualismi soggettivi o borie sentenziose o ancora tifoserie isteriche, da un lato e dall’altro delle opinioni, non può che favorire una crescita civile, tanto più che non si tratta di argomenti che nell’immediato procurano stravolgimenti socio-economici come invece può accadere quando si tratta di una legge finanziaria.
Interessante l’osservazione di una universitaria che ci ha detto di provare a chiamare casalinga e non casalingo, gli uomini che si occupano della gestione quotidiana della propria casa, specialmente quando singoli, per vedere quale reazione, di solito scomposta, potrebbero avere alcuni che si sentono dei duri. Come anche, ci ha fatto notare, che nel generale sentire comune, il pane è quello grosso e duro, mentre la pagnotta sarebbe più piccola e molle, in sostanza come s’immagina da secoli ciò che è maschio rispetto a quanto femmina. Chiaramente (ha continuato) è una questione di quali messaggi e concezioni, spesso anacronistici, si sono ricevuti in famiglia, a scuola e nella società, durante la crescita e la formazione dell’individuo, spesso non in linea con i tempi moderni. D’altronde, sui moduli della Pubblica Amministrazione c’è ancora riportata la sola dicitura “casalinga”, come se non si possa concepire il casalingo-uomo.
Ci viene così in mente, che alla fine del 19° secolo la Cassazione respingeva il ricorso di una laureata in legge in quanto donna ché voleva esercitare la professione di avvocato (o avvocata). Oggi una sentenza del genere sarebbe inammissibile, anche se, da una vicenda che si conosce e la cui sostanza giuridica appare molto simile, si è visto come ancora ci sono Giudici, uomini e donne, che evidentemente la pensano in un certo senso analogamente a quelli del 19° secolo. Evidentemente c’è ancora molta strada da fare per l’uguaglianza, la parità e la civiltà culturale.
span style="color: #ff0000">L’immagine è tratta dal video su youtube
Il Casalingo, titolo di una delle canzoni del 48º Zecchino d’Oro del 2005 e adattata al tema di questo articolo.
Adduso Sebastiano
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