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all’alto della sua mole il Torrione a Forio d’Ischia osserva sereno lo scorrere dei tempi e si racconta. Lo fa attraverso la penna di un figlio prediletto di Forio, lo storico Giuseppe D’Ascia, che fu dirimpettaio della torre antisaracena e proprietario dell’omonimo “Palazzotto”, e che ha lasciato a imperitura memoria la “Storia dell’isola d’Ischia”. Lungo la stradina che separa il simbolo della cittadina turrita e, il settecentesco “Palazzotto”, ove scorse il primo “sang’e turc”, è possibile imbattersi in “Scarium.”
Nella prima parte, la settimana scorsa, con Frammenti di memoria, è stato introdotto un ambiguo personaggio: una monatta.
«Lo sapevo che sarebbe arrivata la peste! C’è stato l’eclissi di luna, due anni fa! Presagio di sventura! Saranno colti dal diluvio di fuoco i viventi e sarà fuoco, febbre violenta e arsura e sete inestinguibile!».
Così esordisce Tolla, il terzo personaggio, interpretato da Alessandra Criscuolo, annunciando i suoi funesti presagi. Forio, verso la metà del ’600 è decimata da un’epidemia di peste. La monatta, trasporta cadaveri nella chiesa di San Sebastiano alle Pezze, (già esistente nel 1531 e, nel 1750, sottoposta ad ampliamento e restauro su progetto dell’architetto Ferdinando Fuga, ma poi distrutta dal terremoto del 1883). Per compenso, sottrae preziosi e gioielli e li raccoglie in un laccio appeso al collo, una ”cannaca”.
Il D’Ascia riporta:
Tolla « La peste si aggiunse agli altri mali nel 1656. Tremenda, terribile infierì a Napoli; fu portata dalla Sardegna:il morbo si diffuse pel regno. L’Isola d’Ischia ne fu spaventevolmente attaccata; il contagio si distese per ogni contrada; innumerevoli furono le vittime: i casali rimasero spopolati, le università e le terre stremate: mancavano i seppellitori: valloni interi fra i burroni del monte Epomeo furon colmati di cadaveri. I benestanti, i contadini, i preti, fuggirono nelle solitudini delle campagne perché credettero così non venir contagiati; ed appena fra cento si trovava qualche vero apostolo che i soccorsi della Religione apprestasse all’appestato negli ultimi istanti di vita Preghiere, voti, penitenze, offerte di templi, d’altari d’istituir cappellanie, di eriger chiese, dai primi birbi, dai prepotenti, dai succhia sangue del povero, si fecero per timor della morte, e tremanti si votarono a S. Carlo a S. Rocco se scampassero dal flagello. Una pioggia dirottissima, che allagò campagne, e si tramutò in torrenti caduta nell’està di quell’anno sull’isola, apportò la tanto desiderata miglioria; cominciarono a decrescere i casi di peste, il morbo andò scemando, ritornò nelle desolate famiglie la speranza della vita, ed i voti, le promesse si dimenticarono per lo più dai rassicurati superstiti. Nella terra di Forio una intrepida vecchia chiamata Tolla fu la seppellitrice dei cadaveri, che ammonticchiava su piccola carretta e trasportava nella chiesetta di S. Sebastiano ritraendone per mercede gli oggetti del trapassato, e se questi erano preziosi li portava infilzati tutti in un laccio che portava sempre seco appeso al collo a guisa di collana detta allora cannacca. Anche oggi è rimasto il proverbio, quando in Forio, una popolana si guarnisce di soverchio, e si sente. Che! vuoi fare la cannacca a Tolla? Questa fu tre volte attaccata dalla peste; le due prime volte superò il morbo, alla terza vi soccumbette. »
Segue quindi una doverosa visita a un altro palazzo settecentesco che ha sbocco sul mare, il palazzo del marchese Caruso, nel cui androne è ancora visibile il motto: ” Moderata durant” cioè le cose morigerate durano. Il fregio racchiuso tra la palma e il compasso, probabilmente è tratto da un aforisma templare, in seguito, fatto proprio dai massoni (ancora presente su un’iscrizione muraria nella cittadina di Monteleone di Spoleto), e le cui finestre di forma moresca consentivano all’antica proprietaria di osservare il giovane pescatore foriano di cui si era invaghita. In questo “castello dorato” Rachele Guidi Mussolini, vedova del Duce (interpretata da Sara Di Migliaccio) conobbe, insieme ai figli Romano e Annamaria, l’esilio per oltre dieci anni. L’autore dei testi, Corrado Visone, ne traccia un profilo inedito, rimarcandone la conflittualità con Claretta la rivale attrice, che ha sottratto a lei contadina il marito, di cui tuttavia si sente l’unica continuità. Le priorità di Rachele sono, come per ogni madre, la protezione dei figli su cui si accanisce la stampa a caccia di scoop. Ma ogni volta che qualche forestiero si avvicina alla sua prigione-rifugio lei, si barrica in casa. Solo il giornalista Bruno D’Agostini, uno dei più noti corrispondenti di guerra del Messaggero di Roma, riesce a fare breccia nel muro di silenzio dietro di cui si celava la vedova di Benito. D’Agostini scalfisce il cuore della donna ricavandone una serie d’impressioni da cui traspare un giudizio, allo stesso tempo tenero e tagliente, sulla figura del marito ucciso a Piazzale Loreto insieme all’amante Claretta Petacci: “Pareva un leone, e invece, tutto sommato, era un pover’uomo” confida Donna Rachele al giornalista nell’estate del 1946.
Ultimo personaggio, non in cerca d’autore ma delle sue opere, è Don Pietro Regine (Corrado Visone, autore dei testi), sacerdote foriano del settecento, artefice della Cappella Regine, sempre nella stradina di “Scaro”, ad appena pochi passi dal mare. Una cappella privata ricca di opere d’arte, tra cui una statua della Religione Velata, opera del grande scultore Giuseppe Sammartino, cui Forio deve anche la statua del santo patrono, San Vito. Tutto dissolto. La statua della Religione, quasi a pezzi, è nel cimitero di Trieste, il pregiato pavimento maiolicato, grazie ai principi di Stigliano Colonna, è al Museo Artistico Industriale di Napoli. Qui a Forio solo una semplice targa ne ricorda la passata esistenza. Sempre lo storico Giuseppe D’Ascia, enfatizzando la profonda religiosità che tradizionalmente distingue l’isola d’Ischia, in particolar modo il popolo di Forio, annota:
La cappella di Regine
Questa Cappella costituisce un piccolo museo di famiglia. Oggi vi sono rimasti i soli avanzi che noi mano mano andremo descrivendo, dopo aver raccontata la storia della fondazione di questa privata Cappella gentilizia della famiglia Regine dedicata a S. Filippo Neri. Un prete chiamato D. Pietro Regine, uomo per quanto agiato, per tanto economico per sé, verso l’anno 1760 decise di formare una cappella, ed in questa prodigare i suoi risparmi di anni, onde rimanere un piccolo museo d’arte ad ornamento e decoro de’ suoi discendenti, a lustro del suo paese. Quindi adattando alcuni membri della sua casa – posta alla contrada Torrione – a Cappella ed a Sacrestia, adornò questi annessi locali dei più pregiati e fini marmi, di lavorati stucchi, di pregevolissime tele di primi pittori italiani, di stupende sculture in statue, bassi-rilievi, ed ornamenti, uscite dallo scalpello de’ più distinti e rinomati scultori napoletani. E non contentandosi di questi capi lavori, volle essere in tutto prodigo, fin negli armadi, porte ed altro, fatte costruire di legni rari, da perfetti artefici – Un organo dorato ad oro fino, e maestrevolmente intagliato – Statue di argento – Arredi sacri di oro ed argento – Pianete ricche di fini ricami; e fin l’apparato dell’altare tutto di fino argento. Di tanti oggetti preziosi per arte, per manifatture, e per materia; ne sono rimasti pochi avanzi e di questi soltanto daremo un breve cenno, affinché il curioso s’invoglia ad osservarli.
Appena salito il pendio della marina, dalla parte così detta di Scaro, viene di fronte la porta di detta Cappella, la quale è sempre chiusa e ribadita – Una cornice di marmo bianco ben lavorata forma il frontone, e gli stipiti della indicata porta. Le pareti della cappella sono tutte coverte da fini marmi colorati ben connessi, nei quali sono incastrati madreperle, e lapislazzuli, in delicati lavori a disegni variati ed armonizzanti. Due simmetriche pile sono all’entrata della cappella, accosto a quella a destra avvi un basso rilievo di marmo rappresentante medaglione il ritratto del fondatore, sotto del quale avvi un’iscrizione scolpita su di una tavola di marmo, lavorata a pergamena – Le pile colle loro basi di marmo, sono ben lavorate, con intagli, nei quali i lapislazzuli ed altre finissime pietre incastrate sono state rose dall’acido muriatico. Il medaglione e la pergamena sono ottimamente eseguiti su pregevoli marmi, ed appalesano la mano dello scultore. L’altare è di un marmo pregevolissimo e prescelto, altare più ricco di questo noi non crediamo che per l’isola vi fosse. Il frontespizio della cappella ove sta il quadro di S. Filippo Neri, è anche di preziosi marmi – La tela è opera di un pennello non comune – Come l’altra ch’è di fianco, di forma semi-ovale e rappresenta S. Carlo e S. Filippo. Sulla porta d’ingresso si vede l’organo il cui parapetto è di fini intagli dorati ad oro di zecchini, come altresì la facciata dell’organo stesso. Altre due tele di pregio sono in una specie di alcovo, al fianco sinistro della cappella per chi entra dal principale ingresso.
Da questo annesso s’esce su di un loggiato coverto, che sporge sulla marina, e guarda tutto il seno settentrionale col mare che l’occupa, e che si distende fino ai lontani punti del golfo di Gaeta, e terre circostanti. A sinistra, entrando sempre dalla porta maggiore, un vano ti conduce alla sagrestia. In questa sagrestia oggi non vi son rimasti che i seguenti oggetti. Quattro tele sotto alla volta, quasi cassate, perché molto danneggiate – La vaschetta del lavabo, formata da una conca di marmo con l’apposito serbatoio con rubinetti, e su di questo altro medaglione a basso rilievo con un puttino a rilievo tondo, tutti di marmo bianco di perfetta esecuzione. Tali ritratti rappresentano, il medaglione il fondatore, il puttino il suo nipote. Di fronte sta la statua velata della religione in marmo bianco, posta su di un piedistallo abbellito da uno stupendo bassorilievo, le cui figure sono tratte dall’antico testamento e rappresentano fatti biblici. Questo artistico e stupendo lavoro è opera del rinomatissimo Giuseppe Sammartino celebre scultore Napoletano nel XVIII secolo.
Questa statua con quello stupendo bassorilievo sono oggetti veramente degni di un museo.
Arricchito dalle preziose informazioni del giovane “Virgilio”, Pierpaolo Mandl, che introduce le scene, dal contributo della Banda Musicale Città di Forio, con la collaborazione delle Associazioni Actus Tragicus e Radici, e con la scenografia e coreografia del luogo stesso che dà un valore aggiunto, Scarium si congeda tra gli scroscianti applausi di un pubblico grato soprattutto per il germe che ha visto inseminarsi durante il percorso: quello della conoscenza.
Luigi Castaldi
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