ROOM – Ma’ è stata rapita ed è prigioniera in un bugigattolo da ben 7 anni: dal suo rapitore ha avuto un figlio, Jack. L’eventuale libertà è solo una parte del loro futuro.
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OOM – E’ un film (IRL-CAN, 15) non solo ben riuscito, ma del tutto genialmente spiazzante.
L’”avventura” della messa in produzione del film, del suo successo (ma numerosi film hanno gestazioni strane e avventurose) nasce da un romanzo del 2010: è ovvio –si dirà-, ma quanti film nascono da libri? Si: ma questo è stato immaginato contemporaneamente dalla stessa autrice Emma Donoghue, irlandese, naturalizzata candese nell’Ontario. Il fatto non è usuale. Perché gli autori letterari tendono ad disinteressarsi della messa in film delle loro creazioni, ritenendola, giustamente, “altro” dalla loro parola scritta. Lei ha scritto la sceneggiatura prima che quel romanzo, “Stanza, letto, armadio, specchio” del 2010, ispirato a fatti di cronaca, avesse successo, da noi pubblicato da Mondadori. E lei, ancora, si è scelto il regista.
L’irlandese Lenny Abrahamson: autore non conosciutissimo; ma che aveva fin da subito imbroccato con lei la chiave giusta di lettura del film, convincendo l’autrice, che l’ha preferito a numerosi e più blasonati di Hollywood. Anzi, ha specificato che la sua scelta è stata volutamente “europea”: perché lei, benché perfettamente integrata nell’ambiente culturale-letterario canadese, tale si ritiene per formazione e vocazione. Quindi: poco spazio al thryller o agli effettacci de paura; maggiore alle motivazioni psicologiche. Il regista ha messo l’accento, nella corposa e fondamentale parte iniziale che si svolge entro la prigione di 11 metri, sulla visione di quella come la caverna platonica. Una delle “figure” di metafora più famose del filosofo, volta a significare la comprensione del mondo, che avviene distorta e parziale, poiché è come se le immagini del reale le vedessimo dal fondo. Il che è esattamente ciò che avviene in quell’antro. Solo che la visione esterna è data dalla televisione, l’unico punto di contatto col mondo: ed è il bambino che crede che il reale sia solo lì dentro, in cui è riuscito a trovare una sua intima, giusta collocazione, e il “fuori” una grande e incomprensibile magia, per certi versi oscura e impaurente.
La madre ha saggiamente invertito la illustrazione delle linee del “suo” reale, utilizzando la mentalità magica che corrisponde fisiologicamente al tipo di crescita intellettuale dei bambini di quell’età. Ma l’ha fatto per dare un senso compiuto a quell’universo in cui il bimbo era nato e cresciuto. E, tra l’altro, era l’unica soluzione possibile se non voleva distruggere se stessa e il bambino: così facendo, è potuta sopravvivere, dedicando le sue energie a lui. E il miracolo di scrittura del film è che il punto di vista che ci illustra lo svolgersi dell’azione è quello del bambino.
Certamente la madre è molto e splendidamente presente: la sua intensità è però filtrata dall’immaginario del bambino; dalla sua profonda comunicazione affettiva con lei. Tutte le sfumature dei sentimenti che la pervadono, sono sempre non edulcorati, ma resi a noi dal modo con cui il bimbo la osserva. Egli, cioè, comprende solo parte della verità. La angoscia, la frustrazione sono tutte emozioni la cui intensità noi comprendiamo a pieno solo nell’estendersi del tempo della narrazione della prigionia. Però queste forze distruttive non la colmano mai del tutto, perché è donna tosta che, per amore del figlio, non molla mai: il suo fine è la libertà. In questo l’impostazione registica è stata autorale e di gran livello espressivo. Ma il miracolo di questa profondità così raffinata è dato dalla prova della protagonista e del suo rifrangersi allo specchio degli occhi del figlio: di una complicità affettiva, giocata su più livelli di risposta alla situazione: tutte sensazioni che l’attraversavano erano numerose, tutte credibili e tutte compresenti. Lei crea un equilibrio tra sé e il figlio con grande fatica: che poi, nella seconda parte del film,va in frantumi. L’attrice Brie Larson ha vinto l’Oscar 16 come miglior attrice. Ma pure il “dopo” è risolto con un allargamento e spostamento dell’attenzione su altri personaggi: tutti sempre connotati dal rapporto col bimbo. E in cui si ripercorrono i sentieri della conoscenza e fiducia affettiva reciproca: unico strumento con cui ricomporre, nella psiche di Jack, l’unità del mondo e la sua identità all’interno di esso. E qui entrano in gioco o ne scompaiono altri: ad esempio il rapitore che non viene più nemmeno nominato.
Ma è logico che ciò sia: egli per il bimbo è solo un Orco Nero, dai profili incerti e lontani. Però c’è il nonno, l’attore William H. Macy, che non accetta il figlio di lei come “frutto della violenza”: e pure lui è posto in sordina; mentre la nonna, e il suo compagno, operano una scelta più profonda, generando un visibile spostamento dell’affettività verso di loro. In modi assolutamente convincenti: con tatto e delicatezza. L’attrice che interpreta la nonna è Joan Allen, un’attrice di forte presenza e personalità , che sa passare dal patetico alla commedia e al film d’azione (è stata un delle protagoniste della serie di Bourne). Nella prigione in cui il regista e il production designer Ethan Tobman hanno relegato i due, c’è una dimensione addirittura intima e vivente, in cui il bimbo “riconosce” come persone i singoli oggetti, spaiati e sbrecciati, come animati e facenti parte della sua sfera esistenziale e affettiva insieme alla presenza della madre. Però non mancano punte di angosciosa rilevazione della lontananza: quel lucernaio in alto è un’idea grafica di viva efficacia. Mentre la casa della nonna è luminosa, chiara e si può lo stesso circolare a piedi nudi, come là dentro: il bambino lì si era creato il suo mondo; e la casa dei nonni, in cui si taglia capelli per “dare più forza” alla madre, è diventato anch’esso un habitat positivo. E’ addirittura struggente lo sguardo, grazie al prezioso montaggio di Nathan Nugent, tra l’attonito, il trasecolato e il curiosissimo, con cui guarda per la prima volta nella sua vita, e ne è come ipnotizzato e commosso, i veri alberi, i veri prati, i veri oggetti, mentre sta sul cassonetto dell’auto dell’Orco.
Mentre la visita finale al capanno, che è reso piccolo, angusto e squallido, rappresenta il totale, completo superamento psicologico del dramma: soprattutto una sana dimensione di consapevole crescita.
Francesco Capozzi / ” ROOM ” UN GIALLO IN SPAZI STRETTI, MA DALLE GRANDI APERTURE
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