Hey Jimi, nell’autobiografia di Hendrix il testamento di un genio della musica. JIMI HENDRIX: “Quando non ci sarò più non smettete di metter su i miei dischi”.
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all’infanzia nel ghetto alla prima chitarra fino a un’ultima straordinaria jam session. Attraverso diari, appunti e interviste il musicista racconta la sua vita brevissima.
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A scuola scrivevo un sacco di poesie, e la cosa mi rendeva felice. I miei versi parlavano soprattutto di fiori, natura e gente in tunica. Volevo diventare un attore o un pittore. Mi piaceva dipingere paesaggi di altri pianeti. Pomeriggio estivo su Venere . Roba così. L’idea dei viaggi spaziali mi esaltava più di qualunque altra cosa. Di solito la professoressa ci chiedeva di dipingere tre paesaggi, e io facevo cose astratte, tipo: Tramonto marziano , non scherzo! Lei allora diceva: «Come stai?». E io me ne uscivo con qualcosa di stralunato, tipo: «Be’, dipende da come si sentono le persone su Marte». Non ne potevo più di ripetere: «Bene, grazie».Ho mollato la scuola molto presto. Mio padre disse che avrei dovuto trovarmi un lavoro. E così ho fatto, per un paio di settimane. Ho lavorato per lui. Trasportavamo sacchi di calce e grosse pietre da mattina a sera. Non mi pagava. Quindi ho cominciato ad andarmene in giro con altri ragazzi. Capitava che prendessimo di mira un poliziotto, e mezz’ora dopo si scatenava l’inferno. A volte si finiva in galera, dove però si mangiava bene.
Jimi Hendrix, l’autobiografia: il mio funerale sarà elettrico
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Il mio primo strumento è stato un’armonica. Credo di averla ricevuta a quattro anni. Poi un violino. Ho sempre avuto un debole per gli strumenti a corda e i pianoforti, ma desideravo qualcosa da poter portare a casa con me, e non è che puoi portarti a casa un piano. Così ho cominciato a darci dentro con le chitarre. Sembrava essercene una in ogni casa, poggiata da qualche parte. Una sera, un amico di mio padre era sbronzo e mi ha venduto la sua per cinque dollari. Ho iniziato a suonarla a quattordici, quindici anni. Suonavo nel cortile e i ragazzi venivano a sentirmi. Dicevano che ero bravo. Poi l’ho messa da parte. Ma quando ho sentito Chuck Berry la passione è rinata.
Il mio primo ingaggio è stato un posto della Guardia nazionale; abbiamo guadagnato 35 centesimi a testa e tre hamburger. All’inizio è stata dura. Conoscevo sì e no tre canzoni, e quando era il momento di salire sul palco me la facevo sotto. È la classica situazione da cui puoi farti scoraggiare: ascolti le altre band che suonano in giro e il loro chitarrista ti sembra sempre parecchio migliore di te. A questo punto la stragrande maggioranza getta la spugna, ma devi resistere. Tenere duro e basta.
PERCHÉ SUONO COI DENTI
Siccome non mi dimenavo granché dei tizi hanno cercato di convincermi a suonare la chitarra dietro la testa. Io rispondevo: «Ehi, ma chi ha voglia di stronzate del genere?». Però quando suoni davanti a un pubblico che non si accontenta mai, prima o poi inizi a trovarti noioso tu stesso. L’idea di suonare la chitarra coi denti mi è venuta in un posto in Tennessee. Laggiù o suoni coi denti o ti sparano! C’era una scia di denti rotti su tutto il palco. Quando suoni coi denti devi sapere quello che fai, altrimenti può rivelarsi spiacevole. Per molti ciò che faccio con la chitarra è volgare. Non sono d’accordo. Forse è erotico, ma quale musica con un buon ritmo non lo è? La musica è una forma di espressione così intima che è destinata a evocare il sesso. E cosa c’è di sbagliato? È davvero tanto osceno? Più osceno di una qualunque pubblicità erotica che si può trovare nei giornali o in televisione?
VI SEMBRO UNO CATTIVO?
Sai qual è il vero problema? Non sono capace di guardare dritto in camera e sorridere se non ne ho voglia. È più forte di me, non ce la faccio. È come doversi sentire felice a comando! Comunque i fotografi cercano sempre di farmi apparire cattivo. E questo mi ha reso una specie di mostro. A dirla tutta non capisco perché la gente voglia vedermi a tutti i costi come un personaggio da film dell’orrore. Se avessi l’aspetto di un cannibale andrebbero in visibilio! A New York i tassisti accostavano, e dopo avermi dato una rapida occhiata ripartivano. Certe persone vorrebbero tutti omologati. Be’, io non finirò mai così. Perché dovrei somigliare a un tassista?
Finché non è giunta voce che gli inglesi apprezzavano la mia musica, in America ero un perfetto sconosciuto. Ora invece nei locali del Village veniamo accolti come divinità. Non faccio nulla di eccezionale, eppure Life e Time hanno improvvisamente iniziato a scrivere di me. Si tratta della stessa gente che prima mi prendeva in giro. Ah, Ah! Adesso non sono più Jimi lo stupido, ma Mister Hendrix. Mi analizzano, si presentano con dossier da psicologi, faticano a capire cosa mi scorra nelle vene. Viviamo in mondi diversi. Il mio? Fame, bassifondi, odio razziale, un posto dove l’unica felicità che possiedi è quella che puoi tenere in mano.
L’ACCORDO PERDUTO
Il numero della chitarra sfasciata è iniziato per caso. Stavo suonando a Copenaghen e mi hanno trascinato giù dal palco. Tutto andava alla grande. Dopo aver ributtato la chitarra sul palco l’ho seguita con un salto, ma quando l’ho raccolta ho trovato una grossa incrinatura nel mezzo. Allora ho perso la pazienza e ho fatto a pezzi quel dannato arnese. Il pubblico è andato in delirio — sembrava che avessi finalmente scoperto “l’accordo perduto” o roba del genere. Così, ogni volta che c’era la stampa o mi andava, ho riproposto la scenetta. È una voglia improvvisa di agire in assoluta libertà — insomma di fare ciò che faresti se i tuoi genitori non ti tenessero d’occhio. Non sono un tipo violento, ma ormai la gente pensa che lo sia. Sfasci tre o quattro chitarre e la gente ne deduce che tu non faccia altro. Invece succede solo quando ci prende quella voglia. La frustrazione è al massimo, la musica si fa sempre più forte, e a un tratto crash, bang, ecco levarsi il fumo. Certe sere capita che tutto vada storto e allora, se sfasciamo qualcosa è perché lo strumento che amiamo profondamente non funziona a dovere. Non risponde, così ti viene voglia di ammazzarlo.
CREDI IN TE STESSO
Vivere richiede una serenità mentale che ognuno deve cercare dentro di sé. Occorre avere fiducia in se stessi. In un certo senso penso che credere in Dio consista in questo.
Se esiste un Dio ed è Lui ad averci creato, allora credere in se stessi è credere in Lui. E quando cominci a portare Dio dentro di te diventi parte di Lui. Questo non significa credere al Paradiso e all’Inferno, ma che la religione è ciò che sei e ciò che fai. Quando salgo sul palco e canto, quella è tutta la mia vita. La mia religione. Io sono la Religione Elettrica.
BISOGNA FARE UN PASSO AVANTI
Ci hanno chiesto di tenere un concerto di beneficenza per le Pantere Nere. Ma per quanto ne fossi onorato eccetera, ancora non ci siamo esibiti. Negli Stati Uniti sei sempre costretto a prendere una posizione. Che tu sia un ribelle o un tipo alla Frank Sinatra. Quand’ero più giovane ho scritto canzoni di protesta cariche di rancore. Adesso non lo faccio più perché ci sono questioni politiche da cui preferisco tenermi alla larga. Prima di dire una qualunque cosa devo sentirmi coinvolto. Invece non mi sento coinvolto. Anzi, ora come ora mi sento smarrito. Slegato dalla quasi totalità delle cose. Sono dispiaciuto per le minoranze, ma nessuna m’ispira un senso di appartenenza. Io sto dalla parte di chi è svantaggiato, ma il mio obiettivo non è convincere chi è svantaggiato a fare questo o quello. Non guardo le cose da una prospettiva razziale. Guardo le cose dalla prospettiva degli esseri umani. Non penso a neri o bianchi. Penso a ciò che è vecchio e a ciò che è nuovo. Non sto tentando di negare il mio legame con le Pantere Nere, intendiamoci. Mi sento parte di ciò che stanno facendo.
Agire è necessario, e in termini di serenità e condizioni di vita siamo noi quelli che se la passano peggio. Però non sono per la guerriglia. Non sono per lanciare una bottiglia molotov o fracassare la vetrina di un negozio. Così è inutile. In particolare se lo fai nel tuo quartiere. Non provo odio per altri esseri umani perché, alla luce del mio percorso, sarebbe come fare un passo indietro. È indispensabile condividere il dolore, sforzarsi di comprendere quale parte è andata perduta. Allargare la prospettiva. Dare ai pensieri una dimensione universale è un’ottima cosa.
NON SO SE ARRIVERÒ AI 28
Quando avrò la sensazione di non avere altro da offrire a livello musicale diventerò irrintracciabile. Se non avrò moglie e figli sparirò dalla faccia della terra. Non avendo nulla da comunicare attraverso la musica non avrò niente per cui valga la pena vivere. Non so se arriverò a 28 anni, ma mi sono accadute cose meravigliose negli ultimi tre.
Il mondo non mi deve nulla.
Il corpo è un veicolo fisico utile a condurti da un posto all’altro senza troppi problemi. Il proposito è tenere i nervi saldi, capire come prepararsi al meglio per il mondo che verrà, perché ne esiste uno. Spero vi piaccia. Alla mia morte ci sarà una jam, puoi giurarci. Voglio che tutti diano il massimo e si sballino. E conoscendomi, finirò per cacciarmi nei guai al mio stesso funerale. Il volume sarà alto, e ci sarà la nostra musica. Non voglio canzoni dei Beatles, ma qualche pezzo di Eddie Cochran e parecchio blues. Roland Kirk verrà di certo, e farò di tutto perché non manchi Miles Davis, sempre che abbia voglia di passare. Per una cosa così varrebbe quasi la pena morire. Quando non ci sarò più non smettete di mettere su i miei dischi.
The Jimi Hendrix Experience – Hey Joe (Official Audio)
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Traduzione di Alessandro Mari Published by arrangement with
Agenzia Letteraria Roberto Santachiara
/larepubblica 6 luglio 2014
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