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REVENANT- REDIVIVO (critica di Patricia Santarossa) TRAILER

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I

l film (USA, 16) è tratto da un romanzo (di Michael Punke) che narra avvenimenti storicamente documentati: che, tra l’altro, sono alla base di in altro fortunato film: l’indimenticabile “Corvo Rosso non avrai il mio scalpo” (USA, 72) di Sidney Pollack, con Robert Redford.

Il regista, anche sceneggiatore (insieme a Mark L. Smith) e produttore, è il geniale e visionario messicano Alejandro Gonzàles Inarritu, che è stato Premio Oscar 15 per “Birdman” (USA,14). Decisamente il Western è tornato di moda.

Questo è il genere narrativo che ha rappresentato l’epopea costitutiva della stessa creazione degli Stati Uniti d’America; ne ha  raffigurato la sua mitologia. Ed è nato, si può dire, insieme allo stesso cinema statunitense. Ma l’approccio non è, né poteva essere soprattutto epico, considerando i tempi e la stessa formazione del regista non statunitense. Cioè la storia di “resistenza-ritorno-vendetta”, perché è questa la sua ossatura narrativa, è letta non al modo tradizionale, come ci ha abituati il cinema, con i suoi momenti di acme e di partecipazione drammatica, ma in una chiave che lo stesso Inarritu ha definito “metafisica”.

Voglio dire: non è che questi motivi narrativi non ci siano. Anzi: essi sono contrassegnati da un’evidenza drammaturgica forte e tenebrosa, a dispetto degli immensi panorami naturali, bellissimi e incontaminati, in cui si svolge, che sostiene magnificamente le oltre 2 ore e 30minuti di proiezione. Ma è il tipo di confronto con la natura che rende il film del tutto particolare. Leonardo Di Caprio, che interpreta con forza commovente il revenant, diventa parte integrante della natura: in realtà lui lo era già da prima; e molto più dei cacciatori, avidi e, per quanto incalliti, degli sprovveduti, di fronte alla complessità dell’ambiente. Non solo dal punto di vista naturale, ma anche umano.

Infatti la Guida era divenuta parte, non solo di quei posti che conosceva perfettamente, ma anche dell’umanità che già abitava quei territori, della tribù Pawnee, essendone stato accettato e sposato una nativa, poi uccisa a freddo dai soldati USA, che volevano, con questi massacri di genocidio mirato, “liberare” i territori da colonizzare successivamente. Egli sia nel corso di questa vendetta, ma soprattutto dopo, si sente solo: come una piccola variante trascurabile di quell’universo. Il film si chiude con dettaglio impressionante,  ma anche difficile da sostenere, perché è stravolgente: lo sguardo del protagonista verso la Macchina da Presa, verso di noi spettatori. Come se ci chiamasse a testimoniare insieme a lui, la nullità della sua impresa in quanto tale: di quanto poco abbia contato la sua indicibile fatica rispetto all’ambiente, alla storia. E quindi ci invita a ri-riflettere su tutto quanto abbiamo visto: al suo valore che coinvolge tutta la nostra emotività; ma la fa prescindere dalla banalità, per quanto violenta e riuscita nella rappresentazione dello scontro. Perché Inarritu, nello sconvolgere le leggi della sintassi spettacolare della narrazione, prima le rispetta e le applica: invitandoci a guardare tutto e tutto insieme. Perciò si può “permettere”, non velleitaristicamente, di darci altre e ulteriori chiavi di lettura. Come ha fatto, ad esempio, nello stesso “Birdman”, dove, nel sottofinale, sembra che veramente Michael Keaton possa aver realmente volato, e che quindi sia tutto un sogno: non solo del protagonista, ma anche di noi spettatori. Del resto lo stile adottato nell’esplorare il selvaggio West, proprio quello delle origini, dei primi scontri di “civiltà”, ricorda Terrence Malick, in particolare di “The new world- il mondo nuovo” (05), in cui affronta una delle leggende-mito, quella di Pocahontas, la regina che si innamorò di uno dei primi coloni nel 1607.

Anche se la naturalità ritratta dal maestro messicano ha più valenze rispetto all’assoluto storico di Malick: riesce ad essere un personaggio, in un certo senso, attivo e presente: poderoso, infinito, mutevole. E lirico anche. Ma dipende dall’occhio che la guarda. Che non casualmente è lo stesso: parlo del direttore della fotografia del film odierno, che è lo stesso del film di Malick: il grande Emmanuel Lubetzki. L’ambiente naturale, in cui il film è stato realmente immerso, con temperature vicine allo zero, nel mentre rendeva disperata, di una portata intensamente, immediatamente fisica, la lotta per la sopravvivenza, ci rendeva parte di un processo sofferto di immedesimazione non solo cogli umani, ma con esso: non era affatto solo uno scenario, per quanto splendido. Alla fine prevaleva su tutto. E questo miracolo si deve alla fotografia, che illuminava con diverse e numerosissime sfumature l’apparente piatta cromaticità invernale. Accogliendo e amplificando anche testimonianze storiche al suo interno: come quella Chiesetta dirupata, segno di una documentata presenza di missionari gesuiti francesi da quelle parti.

Paticia Santarossa

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