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’inchiesta sulla morte di Sasha Litvinenko è un trionfo della giustizia inglese. Chi ha seguito giorno per giorno i lavori di questo tribunale sui generis ha ammirato la trasparenza, la professionalità e la cautela del giudice, degli avvocati e dello staff della Corte Suprema.
Il verdetto è inoppugnabile: due agenti – Dmitry Kovtun e Andrei Lugovoi – hanno avvelenato l’ex spia russa.
L’ordine di uccidere – scrive il magistrato – è partito «probabilmente» dal capo dei servizi segreti russi, con l’approvazione del Presidente Putin.
Dietro questo verdetto-bomba, che oggi è sulle prime pagine di tutti i giornali, si cela uno sforzo titanico per accertare la verità, in nome e per conto dei cittadini del Regno Unito.
Seguire l’inchiesta è stata un’esperienza istruttiva, dolorosa e a tratti divertente. Chiunque poteva accedere a quell’aula di tribunale di media grandezza in un’ala secondaria e remota della Corte Suprema, un palazzone in stile neogotico nel cuore di Londra. Le udienze iniziavano verso le dieci di mattina e continuavano nel pomeriggio, con una breve pausa per il pranzo. All’ingresso dell’aula, lo staff chiedeva allo spettatore se era pubblico o stampa. Il «pubblico» veniva fatto accomodare nelle prime file, proprio a ridosso degli avvocati. Per mesi abbiamo visto sfilare davanti ai nostri occhi Marina Litvinenko e il figlio Tolya, diplomatici, studiosi, poliziotti, medici, scienziati, manager di hotel e di bordelli. Le testimonianze dei membri del servizio segreto inglese venivano rese a porte chiuse, ma il pubblico poteva seguirle da una stanza adiacente. Due schermi permettevano di leggere in tempo reale tutti i documenti dell’inchiesta e la trascrizione di ogni parola pronunciata in aula. Per chi ama la microstoria, non ci poteva essere esperienza più intossicante. Centinaia di persone e le risorse di diversi Stati e agenzie internazionali si sono mobilitate per ricostruire un evento singolo, la morte di un uomo. Più si zumava su un fatto, più la verità sembrava sfuggire, e maggiore era lo sforzo per non lasciarsi scappare un brandello di certezza accumulata dopo mesi di lavoro. In questo caso, il giudice e lo storico sembravano essere la stessa persona.
La comunità di spettatori fissi che si era formata dopo mesi di udienze – composta da funzionari d’ambasciata, spie in erba, giornalisti e curiosi – non è riuscita a trattenere le risate di fronte alla figura di Dmitry Kovtun, uno dei sicari. Dmitry, cresciuto nello stesso quartiere di Mosca di Andrei Lugovoi e come lui figlio di un ufficiale dell’esercito, è stato descritto come un fallito e un alcolizzato. Militare in Germania dell’Est, nel 1991 ricevette l’ordine di trasferirsi nel Caucaso. Senza alcuna intenzione di rischiare la pelle in Cecenia, Kovtun disertò e chiese asilo politico in Germania Ovest, insieme alla giovane moglie. «Dmitry era un alcolizzato, incapace di portare a termine qualsiasi compito complesso», racconta l’ex consorte Inne Hohne. Passava le sue giornate nel quartiere a luci rosse di Amburgo e sognava di diventare un attore di film porno, ma per sbarcare il lunario faceva lo spazzino. Trovò poi un lavoro come lavapiatti in un ristorante italiano di Amburgo, «Il Porto». Messi da parte i sogni di grandezza filmica, lavorò al «Porto» dal 1996 al 2001. Grazie ad un’amnistia per i disertori, tornò in Russia e si rimise in contatto con Lugovoi, che lo assunse nel 2003.
Amburgo rimane uno snodo cruciale di questa storia. Kovtun ripasserà da lì nell’ottobre del 2006, diretto a Londra per portare a termine la sua missione (era il terzo tentativo). Il 30 ottobre 2006 Kovtun esce a cena con l’ex manager del ristorante «Il Porto» e, tra una portata e l’altra, gli confessa: «Sto andando a Londra per avvelenare Litvinenko». Kovtun cerca un cuoco nella capitale inglese che lo possa aiutare a mettere il polonio nel cibo del suo obiettivo. È difficile immaginare un agente segreto più indiscreto, stupido e vanitoso. Ma le operazioni si giudicano dai risultati e Litvinenko è morto.
Dopo la farsa, dopo le complesse spiegazioni scientifiche sulle tracce di polonio ritrovate in mezza Europa, dopo i racconti sulle prostitute frequentate dai due sicari a Londra, la nostra piccola comunità di spettatori per un giorno ha smesso di prendere appunti. Avevamo di fronte un bel ragazzo di vent’anni, vestito alla moda, con il tipico accento londinese dei giovani di oggi. Dopo la geopolitica e la criminologia, abbiamo ascoltato il dolore di un figlio. «L’ultima volta che ho visto mio padre, mi disse: “Se mi succede qualcosa, occupati di tua madre e cerca di essere una persona buona”. Il giorno dopo è mancato. Non ho potuto dirgli addio». In quell’udienza, la grande storia si trasformò nella tragedia di un uomo.
* Federico Varese è un criminologo e insegna alla Oxford University. Ha seguito in aula numerose udienze del processo e il suo libro «The russian mafia» (Oxford University Press, 2005) è stato inserito fra gli atti del dibattimento / lastampa
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