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Castellammare di Stabia

Provveditorato: ‘Incaricati e caricati’ di Marcella Raiola

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span class="_5yl5">Ieri, all’ora delle cariche partite dai “playmobil” chiamati a dare ordinati calci nello stomaco e rieducative bastonate in testa a un popolo stanco di violenza istituzionalizzata, radunatosi per significare questa stanchezza a chi quella violenza rappresenta e pratica con sfrontatezza disgustosa, ero al Provveditorato. 

Ero lì dalla mattina, insieme a centinaia di docenti convocati per il “ruolo”, beffardo termine, offensivo, perfino, per chi il ruolo di docente lo sta svolgendo, con sacrificio e ardore, da anni e anni. C’erano coetanee e docenti più vecchi di me; c’erano facce mai dimenticate di un percorso di studi fatto in un’altra vita, che credevo “sistemate” e il cui stare lì, in piedi o sedute per terra come profughe di un lungo viaggio insensato, attestava il rifiuto di compromessi o accordi al ribasso, la fiducia nelle “regole” che questo rapinoso governo insegna a calpestare e a riscrivere perché siano la copertura della sopraffazione. C’erano “i ragazzini”, vincitori di concorso giovanissimi, cui abbiamo fatto gli auguri “per correttezza” e con materna sollecitudine, ma con allibito scoramento intimo per la facilità con cui prendevano, a 20 anni, quello che a noi viene ancora negato dopo 20 anni di servizio “prendi-e-lascia”, interrotto nelle feste comandate, non pagato a luglio e agosto, legato alla “scalata” di una graduatoria che ora è carta igienica. Nessuna loro “colpa”, per carità: speriamo solo che comprendano di essere stati usati come testimonial di un’oscena propaganda e come buttafuori di docenti non compatibili con la scuola-mercato, e auspichiamo che mordano con sdegno la mano di chi pensa d’essere il loro “padrone”, contrastando a loro volta questo modello di scuola e considerando quel che hanno avuto come sbocco di un iter altrove normale, non come grazia ricevuta da sacrileghi dèi guerrafondai, assetati di voti e sangue.

Il bagno ridotto a un pisciatoio sporco, la porta e lo sciacquone rotti, debordante di assorbenti, fazzolettini, cicche, e gambe gonfie, e sedie a turno, e “prego siedi tu!”, e bar assaltato, acqua, caldo soffocante, sudore che cola, mariti in attesa; niente microfono, niente notizie, niente trasparenza; solo voci di corridoio su esiti, scelte, e “a che punto stanno?”. E poi pianti di diritti violati, e “datemi un foglio dalla spilletta, vi prego… ricorso… reclamo!”; risatine e maneggi squallidi di sindacalisti concertativi che hanno salvato il distacco lucrando sulla nostra tonta passione, vendendo la nostra voce disposta a perdersi nelle aule spoglie in un canto senza eco, e vecchie facce di sindacalisti democristiani inquisiti e sempre lì, sempre in quelle stanze, a brigare, a truffare, a inciarmare. E gli occhi, gli occhi delle donne forti di questo paese, educatrici per vocazione e forma mentis, non per ripiego, a guardare, sbarrati, quegli “ambiti” rimasti, Ischia, Barano, Caivano e il suo disperato Parco Verde, vasti, impegnativi, in cui scegliersi un posto per una battaglia da condurre senza più forze… E calcoli di distanze, e congedi parentali e la gioia di fare questo lavoro che non ci hanno tolto, a forza di umiliazione e spremiture irrelate d’energia; e lo sgomento per la violenza: prendere o lasciare! Comprati la macchina e impara a guidare, se il treno non c’è, se il pullman non passa più o mai, perché lo Stato così pretende. Cazzi tuoi se non riesci! Vuol dire che non hai diritto a lavorare, che non sei “fittest”, non sei attrezzata per la sopravvivenza, in questa selva tanto oscura e perciò felice per tanti ciechi d’anima e coscienza. Sul tuo stipendio da mille euro dobbiamo mangiare, noi parassiti sociali; dal tuo stipendio di mille euro deve uscire il rilancio dell’economia, a modo nostro, forzandoti in ogni modo, ricattandoti ad ogni passo. La sera, mentre la Consigliera Eleonora di Majo, che denunciava anche tutto questo ai microfoni di un giornalista, veniva colpita alla testa da un manganello ottuso, che se ne possa cadere fraceta la mano di chi lo teneva, la mano di mia sorella firmava una carta su cui c’era scritto solo “13”, che corrisponde a un’area grande come mezza Napoli. Da cretina e condizionata, le ho fatto una foto che l’ha mandata in bestia, giustamente… Ha chiesto come si possa scegliere al buio. Le hanno detto: “Forse non avete ancora capito: non siete più voi a scegliere le scuole: sono le scuole che scelgono voi!”. Ma mia sorella ha replicato, con giusta e sacrosanta rabbia, che lei lo ha capito benissimo perché è una docente in lotta, e che quel che non aveva capito è come avessero potuto i sindacalisti che stavano lì, esibendo un cartellino che fa vergogna, sottoscrivere una simile scelleratezza, un nonsenso così penalizzante per chi da anni porta avanti la Scuola di questo paese.
Una sindacalista ha obiettato che “loro” avevano fatto il referendum! “Loro” sono quelli (Snals) che hanno proposto un referendum farlocco su un quesito inammissibile, che chiedeva l’abrogazione, tecnicamente impossibile, di tutta la Legge 107. Non ho risposto perché sarebbe scoppiata una rissa là dentro. Mi sono passati davanti agli occhi i mesi di apnea (aprile-luglio) che ho trascorso in strada a raccogliere, con gli amici, le firme per i quesiti referendari seri, quelli che forse ci permetteranno di eliminare questi scempi, e ho odiato, per un attimo. Solo un attimo, perché nell’odio la mia anima non riesce a riposare, non trova equilibrio. E poi è toccato a me. Chiamata sulla scuola media, dove non ho mai insegnato; chiamata a fare il lavoro d’altri sull’incredibile e sciocco presupposto che esista una gerarchia di classi di concorso per cui chi insegna latino e greco può insegnare alla scuola media ma non viceversa… Banalizzazioni ridicole di chi non conosce questo lavoro, di chi non sa quali cambiamenti si producono, in pochi mesi, nel corpo e nella testa degli studenti… Chiamano le compagne. Gli occhi verdi di Elena mi fissano: fammi la foto, perché anche così, anche così è vittoria: da graduatoria trasparente, senza concorsone, senza dover ringraziare né l’ebete di Firenze né nessun altro! Faccio la foto, e lei alza quel pugno che mi fa salire altre lacrime strane e stranite, e firma, con il suo nome firma, il nome di una resistente insorgente che “nun se tène niente”. Poi tocca a Lucia, che soffre l’ansia fino all’ultima 104 e alla fine ce la fa. Va, va a sedersi lì, e fa boccacce grintose come lei a tutte quelle facce verdi e liquefatte, e di nuovo tutte, tutti acquisiamo, grazie a lei, la consapevolezza di stare in un posto dove si dà lavoro stabile, dove si corona una carriera, dove si fa qualcosa di “buono”. Torna a posto, mi abbraccia, mi dice che, in fondo, del Parco Verde di Caivano, di quei ragazzi persi per tutti, lei, che già ci ha lavorato, ha tanta nostalgia. Mi sento verminosa e inadeguata al mio ruolo, di fronte a quest’affermazione da insegnante vera, che sente di servire, appunto, dove civiltà è solo parola, e mi vergogno tanto del mio inconscio, chiattillo rifiuto della scuola media… Finiti. Finiti i posti. Resto precaria ancora un anno. Le lentine mi stridono negli occhi. Esco barcollando un po’. Il cellulare si è ricaricato in una ciabatta lurida, che mi sporca di nero le mani. Accendo, vedo le botte in piazza, i miei studenti e compagni con facce atteggiate a sfida, bellissime, commoventi, in mezzo alle bandiere delle loro “bande”; vedo le mie “piccine” coi segni delle manganellate sulle gambe e i cartelli con su scritto “Scuola”… Vorrei avere la forza per imprecare contro quell’altra violenza, più diretta di quella subita da noi, che i lividi li fa dentro. Mi siedo in una macchina pietosa. Passo e ripasso il dito sullo schermo del cellulare in corrispondenza della fronte di Eleonora, che appare violacea per la mazzata vigliacca. Sono troppo stanca per incazzarmi come vorrei, troppo confusa; troppe cose, troppi mondi, troppe risposte da dare tutte assieme… Non ce la faccio. Maria… santa Maria… mia madre: ho scordato pure l’onomastico.
Marcella Raiola

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