span class="_5yl5">Ieri, all’ora delle cariche partite dai “playmobil” chiamati a dare ordinati calci nello stomaco e rieducative bastonate in testa a un popolo stanco di violenza istituzionalizzata, radunatosi per significare questa stanchezza a chi quella violenza rappresenta e pratica con sfrontatezza disgustosa, ero al Provveditorato.
Ero lì dalla mattina, insieme a centinaia di docenti convocati per il “ruolo”, beffardo termine, offensivo, perfino, per chi il ruolo di docente lo sta svolgendo, con sacrificio e ardore, da anni e anni. C’erano coetanee e docenti più vecchi di me; c’erano facce mai dimenticate di un percorso di studi fatto in un’altra vita, che credevo “sistemate” e il cui stare lì, in piedi o sedute per terra come profughe di un lungo viaggio insensato, attestava il rifiuto di compromessi o accordi al ribasso, la fiducia nelle “regole” che questo rapinoso governo insegna a calpestare e a riscrivere perché siano la copertura della sopraffazione. C’erano “i ragazzini”, vincitori di concorso giovanissimi, cui abbiamo fatto gli auguri “per correttezza” e con materna sollecitudine, ma con allibito scoramento intimo per la facilità con cui prendevano, a 20 anni, quello che a noi viene ancora negato dopo 20 anni di servizio “prendi-e-lascia”, interrotto nelle feste comandate, non pagato a luglio e agosto, legato alla “scalata” di una graduatoria che ora è carta igienica. Nessuna loro “colpa”, per carità: speriamo solo che comprendano di essere stati usati come testimonial di un’oscena propaganda e come buttafuori di docenti non compatibili con la scuola-mercato, e auspichiamo che mordano con sdegno la mano di chi pensa d’essere il loro “padrone”, contrastando a loro volta questo modello di scuola e considerando quel che hanno avuto come sbocco di un iter altrove normale, non come grazia ricevuta da sacrileghi dèi guerrafondai, assetati di voti e sangue.
Il bagno ridotto a un pisciatoio sporco, la porta e lo sciacquone rotti, debordante di assorbenti, fazzolettini, cicche, e gambe gonfie, e sedie a turno, e “prego siedi tu!”, e bar assaltato, acqua, caldo soffocante, sudore che cola, mariti in attesa; niente microfono, niente notizie, niente trasparenza; solo voci di corridoio su esiti, scelte, e “a che punto stanno?”. E poi pianti di diritti violati, e “datemi un foglio dalla spilletta, vi prego… ricorso… reclamo!”; risatine e maneggi squallidi di sindacalisti concertativi che hanno salvato il distacco lucrando sulla nostra tonta passione, vendendo la nostra voce disposta a perdersi nelle aule spoglie in un canto senza eco, e vecchie facce di sindacalisti democristiani inquisiti e sempre lì, sempre in quelle stanze, a brigare, a truffare, a inciarmare. E gli occhi, gli occhi delle donne forti di questo paese, educatrici per vocazione e forma mentis, non per ripiego, a guardare, sbarrati, quegli “ambiti” rimasti, Ischia, Barano, Caivano e il suo disperato Parco Verde, vasti, impegnativi, in cui scegliersi un posto per una battaglia da condurre senza più forze… E calcoli di distanze, e congedi parentali e la gioia di fare questo lavoro che non ci hanno tolto, a forza di umiliazione e spremiture irrelate d’energia; e lo sgomento per la violenza: prendere o lasciare! Comprati la macchina e impara a guidare, se il treno non c’è, se il pullman non passa più o mai, perché lo Stato così pretende. Cazzi tuoi se non riesci! Vuol dire che non hai diritto a lavorare, che non sei “fittest”, non sei attrezzata per la sopravvivenza, in questa selva tanto oscura e perciò felice per tanti ciechi d’anima e coscienza. Sul tuo stipendio da mille euro dobbiamo mangiare, noi parassiti sociali; dal tuo stipendio di mille euro deve uscire il rilancio dell’economia, a modo nostro, forzandoti in ogni modo, ricattandoti ad ogni passo. La sera, mentre la Consigliera Eleonora di Majo, che denunciava anche tutto questo ai microfoni di un giornalista, veniva colpita alla testa da un manganello ottuso, che se ne possa cadere fraceta la mano di chi lo teneva, la mano di mia sorella firmava una carta su cui c’era scritto solo “13”, che corrisponde a un’area grande come mezza Napoli. Da cretina e condizionata, le ho fatto una foto che l’ha mandata in bestia, giustamente… Ha chiesto come si possa scegliere al buio. Le hanno detto: “Forse non avete ancora capito: non siete più voi a scegliere le scuole: sono le scuole che scelgono voi!”. Ma mia sorella ha replicato, con giusta e sacrosanta rabbia, che lei lo ha capito benissimo perché è una docente in lotta, e che quel che non aveva capito è come avessero potuto i sindacalisti che stavano lì, esibendo un cartellino che fa vergogna, sottoscrivere una simile scelleratezza, un nonsenso così penalizzante per chi da anni porta avanti la Scuola di questo paese.
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