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Proteste in tutta Italia contro il Dpcm e la chiusura dei P.S

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Proteste in tutta Italia contro il Dpcm e la chiusura dei P.S. di vari ospedali nelle zone maggiormente colpite dal covid-19.

Proteste in tutta Italia contro il Dpcm e la chiusura dei P.S

Si danno appuntamento nelle maggiori piazze di Milano, Roma, Napoli o di altre importanti città attraverso il tamtam sui social. Sfilano in cortei più o meno pacifici, bloccano il traffico, scandiscono slogan sotto i palazzi del potere.

Queste le forme di protesta negli ultimi giorni di persone di tutte le età: ristoratori, commercianti ed esercenti di attività varie che, a causa della pandemia e delle chiusure forzate, sono allo stremo e rischiano seriamente di non riaprire più.

A protestare sono anche tutti coloro che lavorano nei settori penalizzati dalla chiusura, in particolare quelli con contratti atipici o che lavorano “in nero”, i primi ad essere falcidiati dalla crisi, ma anche comuni cittadini, tutti uniti contro il Dpcm.

Non sono mancati episodi di violenza, anche se, come hanno sottolineato gli organizzatori delle manifestazioni, questi episodi avrebbero avuto come protagonisti persone che c’entravano poco o niente con la loro protesta contro il Dpcm, persone che approfittano di qualsiasi occasione per creare scompiglio.

Con tale provvedimento, in vigore dal 26 ottobre al 24 novembre 2020, le attività di bar, pub, ristoranti, gelaterie e pasticcerie sono consentite dalle ore 5 alle ore 18, anche di sabato e nei giorni festivi. Il consumo ai tavoli è consentito solo ad un massimo di 4 persone, tranne che siano tutti conviventi.

Dopo le 18 è vietato il consumo di cibi e bevande nei luoghi pubblici e aperti al pubblico, mentre rimane la consegna a domicilio, consentita fino alle ore 24, e la ristorazione con asporto, ma con divieto di consumazione sul posto o nelle adiacenze.

Chiusura forzata per teatri e cinema, sale bingo e sale scommesse. Chiusi anche i parchi e accessi contingentati ai musei. Vietate le feste, anche dopo le cerimonie civili e religiose. Stop a convegni, congressi e altri eventi. Chiusi palestre, piscine, centri benessere e termali. Chiusi anche gli impianti sciistici.

Il coro delle proteste è unanime: tutti chiedono di poter riprendere le attività o l’invio tempestivo di aiuti economici per superare il momento di difficoltà, aiuti economici che sono stati predisposti dal governo e che dovrebbero arrivare ai richiedenti entro la metà di novembre.

Anche la chiusura del Pronto Soccorso di importanti ospedali nelle zone d’Italia più colpite dai contagi desta viva preoccupazione nelle comunità locali e continuano le proteste dei cittadini, con manifestazioni e raccolte di firme.

La serrata di queste ed altre strutture, a causa dell’aumento esponenziale del numero dei pazienti covid-19, è qualcosa che già si paventava da tempo, un fenomeno inquietante che evidenzia l’inadeguatezza del sistema sanitario nazionale.

Un problema che solo ora è evidente in tutta la sua gravità, ma le sue cause risalgono a qualche decennio fa, quando si ritenne che il sistema sanitario pubblico gravasse troppo sul bilancio dello Stato e si cominciò inopinatamente a smantellarlo.

Taglio dei finanziamenti e dei posti di lavoro, con il blocco del turn over di medici e infermieri (aggravato anche dal numero chiuso delle facoltà di medicina), la chiusura di reparti e strutture pubbliche. Un processo che è andato avanti fino a poco prima dell’inizio della pandemia e che ha messo in crisi il sistema.

Certo si è risparmiato, ma come recita un bel proverbio napoletano “o sparagn’ nun è maj guaragn’” (il risparmio non è mai guadagno), ora ci ritroviamo a pagare lo scotto di scelte sbagliate perpetrate nel tempo, giocando con la vita di milioni di persone. Sì, perché si parla di vite umane e non di numeri.

Ora ci rendiamo conto di quanto un sistema sanitario efficiente sia alla base dell’organizzazione di un paese civile e democratico, non solo perché il diritto alla vita e alla salute è sancito dalla nostra Costituzione e lo Stato deve farsene carico, ma anche per le conseguenze economiche che un suo mal funzionamento implica.

Nel caso di una pandemia come quella attuale, avere una rete sanitaria pubblica pienamente efficiente, e non depotenziata dalla mancanza di medici e infermieri, con la presenza capillare di strutture ospedaliere sul territorio, non solo ci avrebbe consentito di salvare molte più persone, ma non ci avrebbe portato alla scelta dolorosa della chiusura anticipata o totale di quelle attività ritenute maggior veicolo di contagio.

Non ci avrebbe portato alla decisione sofferta del look down di marzo, o – come molti paventano – dei prossimi giorni, se l’aumento dei contagi non dovesse arrestarsi. Non ci troveremo a dover scegliere se sia più importante salvare vite umane e preservare la salute della comunità o se sia più importante salvare posti di lavoro e il tessuto economico del nostro Paese.

Adelaide Cesarano

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