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Contro i populismi serve un patto sociale che Trump non vuol dare

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In molti a Washington a temono il peggio. «Contro i populismi – sostiene Charles Kupchan – serve un nuovo patto sociale che Trump e i suoi amici non intendono offrire».

Un patto sociale contro i populismi CHARLES A. KUPCHAN*

I

nsieme la Pax Britannica e la Pax Americana hanno fornito le basi dell’attuale mondo globalizzato. Eppure oggi entrambi i membri fondatori dell’Occidente stanno allontanandosi dall’ordine che hanno contribuito a stabilire e a mantenere con un notevole dispendio di sangue e di denaro. Il voto sulla Brexit e l’elezione di Donald Trump hanno chiarito che molti cittadini britannici e americani ne hanno abbastanza dell’ordine internazionale liberale, consolidatosi dopo la Seconda guerra mondiale. In lotta per guadagnare un salario di sussistenza, a disagio con la diversità sociale alimentata dall’immigrazione, e preoccupati per il terrorismo, un numero considerevole di elettori delle democrazie occidentali ha la sensazione di aver tutto da perdere dalla globalizzazione – e vuole abbandonarla.

Giusto. La legittima rabbia di questi elettori rende chiaro che i nostri sistemi politici post-industriali non hanno fatto abbastanza per gestire la globalizzazione e garantire che i suoi benefici fossero condivisi più ampiamente nelle nostre società. L’elezione di Trump e l’imminente uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea sono segnali allarmanti; ignoriamo le difficoltà della nostra classe operaia mettendo a rischio la democrazia occidentale. Qualunque cosa si pensi di Donald Trump, la sua ascesa rivela che c’è un disperato bisogno di riformulare il patto sociale che sostiene il centrismo democratico e il sostegno popolare a un ordine liberale internazionale.

Il problema è che Trump e i suoi compagni populisti non intendono offrire un nuovo patto sociale; stanno imbrogliando i loro sostenitori. Le politiche di Trump e la sua retorica possono fare gioco con la sua base e il suo fervore anti-sistema, ma la piega che sta prendendo promette, se mai, solo di aggravare le sofferenze degli americani in difficoltà. Non si può tornare all’economia industriale degli Anni 50, quando l’industria manifatturiera trainava l’economia degli Stati Uniti. Quando la realtà si imporrà, Trump potrà sentire il bisogno di ricorrere a un populismo ancora più irresponsabile, mettendo in pericolo tutto ciò che è rimasto della nostra democrazia deliberativa basata sui fatti.

Un nuovo patto sociale comporta che la globalizzazione sia gestita meglio, non che la si rinneghi. Se Washington costruisce un muro al confine con il Messico, respinge le notevoli tariffe sulle importazioni, e blocca o spaventa gli immigrati che contribuiscono a alimentare la crescita, il principale risultato sarà un rallentamento economico, prezzi più elevati per molti beni di consumo e un’economia meno competitiva e innovativa. A dire il vero, Trump potrebbe riuscire a riportare in patria alcune linee manifatturiere. Ma sono posti di lavoro che stanno diminuendo di numero soprattutto per l’automazione, non a causa del commercio estero.

Inoltre, gli Stati Uniti non saranno «di nuovo grandi» costruendo migliori lavatrici e condizionatori d’aria (anche se sarebbe certamente gradito), ma restando leader mondiali nei campi dell’innovazione, della tecnologia e dell’istruzione – che sui nuovi arrivati ci campano. Molti immigrati lavorano nel settore dei servizi, ma sono anche collaboratori strategici del settore high-tech. Un recente studio sulle start-up americane valutate oltre un bilione di dollari ha rivelato che la metà sono state fondate da stranieri e oltre il 70 per cento da immigrati che sono dirigenti di alto livello.

Il Regno Unito si sta mettendo nello stesso cul de sac. I fautori della Brexit promettono una «Gran Bretagna globale» affrancata dagli obblighi politici e fiscali dell’adesione all’Ue e libera di scegliere i suoi rapporti commerciali. Con il traguardo di un’economia in ripresa. Ma, se la Gran Bretagna si stacca dal più grande mercato del mondo e sta a guardare mentre gli imprenditori e le società finanziarie se ne vanno verso il continente, la sua economia è destinata a ridimensionarsi drasticamente. E anche se il Regno Unito resta aperto al libero scambio, dal momento che rappresenta meno del 20 per cento del mercato unico europeo, difficilmente sarà in grado di negoziare migliori patti commerciali in proprio.

Nel momento in cui gli Stati Uniti e il Regno Unito optano per le politiche dell’illusione e della rottura piuttosto che fare affidamento sulle decisioni condivise e sulle politiche informate, potremmo davvero essere alla fine dell’era dell’internazionalismo liberale che si è aperta nel 1945. Per scongiurare questo rischio ci sono tre cose a cui si deve mettere mano con urgenza.

In primo luogo, i centristi di tutte le convinzioni politiche devono unirsi per offrire un nuovo patto sociale che rappresenti un’alternativa credibile alle false promesse economiche dei populisti. Restituire ai lavoratori la fiducia nelle istituzioni politiche richiede un piano globale – nuove iniziative in materia di istruzione, formazione professionale, politica commerciale, politica fiscale e minimi salariali – per fare sì che tutti abbiano un tenore di vita adeguato e godano dei benefici della globalizzazione. Che è destinata a durare. Ma la disomogeneità dei suoi effetti distributivi dev’essere affrontata per il bene della politica democratica.

In secondo luogo, mentre gli Stati Uniti e le altre democrazie occidentali sono scosse dalle forze populiste, gli effetti moderatori dei contrappesi istituzionali saranno di importanza cruciale. Il sistema legislativo, i tribunali, i media, l’opinione pubblica e l’attivismo – rappresentano tutti un freno all’autorità esecutiva e devono essere pienamente adoperati.

Infine, se gli Stati Uniti e la Gran Bretagna saranno, almeno temporaneamente, latitanti quando si tratta di difendere l’ordine liberale internazionale, l’Europa continentale dovrà difendere la posizione. Nel momento in cui la coesione interna dell’Unione europea è messa alla prova dallo stesso populismo che occorre sconfiggere, non è buon momento per chiederle di colmare il vuoto lasciato dal disimpegno anglo-americano. Ma almeno per ora, la leadership europea è la migliore speranza per l’internazionalismo liberale.

[Traduzione di Carla Reschia]

*Docente di affari internazionali alla Georgetown University e membro del Council on Foreign Relations. Dal 2014 al 2017 è stato assistente speciale per la Sicurezza nazionale del presidente Barack Obama. Con questo articolo inizia la sua collaborazione con «La Stampa»  

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