La polemica politica tra i partiti, gli organi dello stato e le parti sociali, monta mentre il contagio nelle regioni più colpite lentamente scende
Polemica politica monta mentre il contagio lentamente scende
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ettimane convulse di dolore e di confusione, quelle che siamo vivendo. Tutti siamo stati presi alla sprovvista, medici e politici. Medici che non hanno afferrato al volo la pericolosità di una virosi. Politici che non sono riusciti a prendere le idonee misure restrittive per circoscrivere sul nascere il diffondersi del contagio iniziale.
Il contagio è divampato come un incendio furioso, trasformandosi in un rogo immane in Lombardia. I morti giornalmente si contano a parecchie centinaia. Gli ospedali straripano e di nuovi ne sono stati approntati, a tamburo battente. Bisogna riconoscerlo e darne atto doverosamente.
Ma adesso che il contagio sempre mitigarsi, si tira un sospiro di sollievo e ci si volta indietro a riconsiderare l’accaduto. Diverse smagliature si intravvedono. Intanto il diverso approccio metodologico che ha permesso al Veneto di avere ragione del contagio alle primissime battute. Limitando significativamente i danni. Cosa che non si è riuscita a fare in Lombardia.
Patetico il balletto delle mascherine, di tutte le tipologie, che sono state cronicamente carenti, con vistose differenze tra le varie regioni. Ad oggi si parla ancora a chi fare i tamponi e quando. Ma ognuna delle venti regioni va per la sua strada, ma non in un’auspicabile gara di emulazione reciproca. Tutt’altro: ignorandosi bellamente. Adesso si presenta il problema dei test sierologici, per capire chi ha sviluppato nel sangue gli eventuali anticorpi contro il coronavirus.
Ma anche in questo ogni regione va in ordine sparso. Ogni presidente di regione si rivolge ad una commissione scientifica di esperti virologi. E difende la propria strategia sulla base di evidenze scientifiche. Inevitabile che ne nasca una babele. Ma soprattutto c’è il rischio che usando metodologie di laboratorio diverse in ogni regione, i dati non possono essere facilmente raffrontabili tra loro. Con grave danno per la raccolta dati nazionale.
L’Istituto Superiore di Sanità, che è una nostra struttura di eccellenza scientifica, viene bellamente ignorato. O anche snobbato in maniera plateale, da parte di qualche regione che pensa di poterne fare a meno. E seguendo una sorta di rito ambrosiano, si rivolge alle proprie università.
Il Governo, al momento di prendere decisioni sulla chiusura totale, deve prima negoziare con venti presidenti di regioni. Impropriamente ormai da tutti chiamati governatori. E costoro pontificano e declamano come fossero veramente loro il Governo. spesso anche in aperta polemica o contestazione. In una babele di ruoli che non aiuta l’efficienza e l’immagine della catena del comando.
Insomma siamo tornati all’Italia pre-unitaria formata da stati e staterelli disuniti. Allora, nel 1848, tra regni e ducati vari, erano una decina. Adesso, nel 2020, gli staterelli sono venti. Tanti quanti sono le Regioni amministrative italiane. Ed in materia sanitaria ognuna legifera autonomamente.
Grazie alla ventata di regionalismo spinto voluto dalla Lega di Bossi, dagli anni ’90 in poi. Allora non si fece altro che parlare di devoluzione. In pratica lo Stato centrale mantenne la potestà su finanza, politica estera, difesa ed ordine pubblico. E demandando quasi tutto il resto alle regioni che, gongolando, trovarono il regno di Bengodi. Soprattutto nel lucroso settore della sanità. E da lì in poi, abbiamo assistito all’allargarsi del divario assistenziale tra regioni virtuose e regioni sciupone. E della polemica partitica inevitabile.
Il Titolo V della Costituzione, contenente il controverso art. 17 che delega ampiamente il potere dello Stato centrale alle regioni, va rivisto necessariamente. Perché, di fatto, ha “spezzettato ogni competenza tra mille autorità”, penalizzando rapidità ed efficacia delle decisioni in momenti di crisi come questa. È ovvio che non possiamo essere una democrazia moderna. Perchè per prendere una qualsiasi decisione che riguarda tutta la nazione, prima bisogna consultarsi con venti sottocapi. Che pretendono di dire la loro con esposizione mediatica, per guadagnarne in visibilità. Ovvio che non possiamo neanche meravigliarci delle fughe di notizie. Come quella che ha determinato il forsennato rientro precipitoso di migliaia di fuggiaschi verso le regioni meridionali.
A pandemia spenta, bisogna ripensare anche alla riforma istituzionale dello Stato. Anche se dopo lo sfortunato referendum del dicembre 2016 avevamo pensato di doverla accantonare sine die.
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