Cyber-sicurezza, soldati, droni e un solo quartier generale L’Italia tenta di superare la crisi europea con la proposta per una difesa comune. Il ministro Pinotti: «Serve una guida politica unica». Sulla Libia dice: «I nostri soldati costruiscono a Misurata l’ospedale per curare i combattenti feriti negli scontri contro Isis». Intanto droni francesi sono pronti a decollare da una base in Niger per cercare nel Sahara i due tecnici italiani rapiti.
Pinotti: “Più fondi e una guida politica: ecco il piano per la difesa Ue”
Il ministro della Difesa alla vigilia del vertice di Bratislava: nessuno sta pensando di eliminare gli eserciti nazionali. Se le missioni sono europee deve essere Bruxelles a pagare
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No, guardi, è importantissimo che il tema della difesa comune sia uscito dai convegni e ne comincino a discutere i governi. Il percorso è avviato».
L’Italia ha un suo punto di vista? C’è una visione italiana per quella che dovrebbe essere la difesa comune europea?
«In effetti ai colleghi illustrerò un “paper” italiano».
Ci contrapponiamo a francesi e tedeschi?
«Assolutamente no. Questo sarà il nostro contributo. E guardi che in materia di Difesa non ci meraviglia che francesi e tedeschi si muovano in maniera coordinata. È una storia che viene da lontano. È da oltre 40 anni che esiste una cooperazione militare franco-tedesca».
L’Italia che cosa propone?
«Precisiamo che nessuno immagina di smontare gli eserciti nazionali per crearne uno sovranazionale. Il punto è un altro. Occorre creare non un esercito europeo, ma una Difesa europea. Primo passo, un meccanismo politico e istituzionale dove si identifichino quali sono le missioni europee e chi le attiva. Pensiamo a un maggiore ruolo dei ventisette ministri della Difesa, che obiettivamente finora è stato marginale. Secondo passo, ben venga un livello tecnico di coordinamento, un quartier generale europeo che sovrintenda ai “battlegroups”, i gruppi da battaglia europei. Terzo passo, non è più immaginabile che questi gruppi di battaglia siano considerati “europei” ma poi vengano finanziati dai singoli Stati nazionali».
Un ennesimo problema di soldi?
«Il risultato di quel paradosso che ho appena detto è che la cosiddetta missione europea in Somalia, che ci vede protagonisti, è quasi interamente a carico dell’Italia. Lo stesso è accaduto per il primo anno della missione navale Eunavfor Med – Operazione Sophia. Allora, se i “battlegroups” vanno considerati una forza europea, che sia l’Ue a farsene carico».
Lei però parla spesso anche di integrare le capacità dei diversi eserciti. Che vuol dire?
«Anche qui: non pensiamo realistico che vengano smontate le capacità consolidate, ma che si possa partire dalle nuove necessità. Prendiamo il caso della cyber-security, di cui peraltro si parla molto anche in sede di Alleanza atlantica: dato che siamo tutti ai primi passi, non sarebbe il caso di partire da subito con una dimensione europea, oltretutto più efficace contro la minaccia da fronteggiare? Altra sfida, i droni. È evidente a tutti che sono il futuro dell’aeronautica. Pochi sanno che esiste un accordo politico tra Francia, Germania e Italia, a cui ha chiesto di aggregarsi anche la Spagna, che si chiama “Eurodrone”. Finora è un’intesa politica da cui discende un accordo industriale. L’auspicio è che sia bissato il successo dell’Eurofighter (il jet da caccia che dal 2003 è la spina dorsale delle aeronautiche europee salvo la Francia, ndr), sperando in un meccanismo di gestione più fluido».
L’industria resta un tasto dolente. Ciascuno arroccato a difesa del suo campione nazionale. O no?
«Secondo noi, quello dell’industria e degli approvvigionamenti è un argomento cruciale per arrivare a una Difesa europea. Abbiamo visto con piacere che Juncker ha fatto delle aperture all’ipotesi di defiscalizzazione, di incentivi, anche per la ricerca. È quanto noi sosteniamo con forza. Mi consenta il gioco di parole: l’industria europea della Difesa dovrà farla l’industria. Alla politica il compito di creare le condizioni migliori per arrivarci».
Scusi ministro, mentre voi parlate di grandi scenari futuri, preme la cronaca. A che punto siamo con la missione Ippocrate in Libia?
«E’ finita la fase 1, con il supporto di alcuni nostri medici militari di pronto soccorso all’ospedale di Misurata; da ieri siamo entrati nella fase 2. La nostra nave è arrivata. Comincia la costruzione dell’ospedale da campo per 50 posti. Come annunciato in Parlamento, entro un mese saremo operativi. Noi siamo in Libia per una missione umanitaria, per curare i combattenti feriti che hanno lottato contro Isis, su richiesta del legittimo governo Serraj. Se ci sono i militari è solo per garantire le condizioni di sicurezza».
Intanto si acuiscono le tensioni fra Tripoli e Tobruk. Quanto conta l’Egitto nella stabilizzazione della Libia?
«Moltissimo, è ovvio. Di recente Il Cairo ha invitato Serraj per discutere come operare in maniera più inclusiva. Quanto alle tensioni sulla Mezzaluna petrolifera, l’intera comunità internazionale ricorda che esiste un governo legittimo».
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