Proseguendo nei miei innesti culturali sul filo dei ricordi e della Storia per la rubrica ”PILLOLE DI STORIA”, inserisco oggi questo contributo che ho titolato: IL PATTO D’ACCIAIO (1939) – A TRADIRE FURONO I TEDESCHI!
L
’atteggiamento scorretto e diffidente tedesco, specie dopo il crollo del Fascismo, determina lo sganciamento italiano da un’alleanza già troppe volte violata dall’arroganza nazista.
Pacta sunt servanda (gli accordi vanno rispettati): è un principio morale, non solo giuridico. Cardine del diritto internazionale, risale al diritto romano: obbliga gli Stati che firmano un accordo a rispettarlo.
L’osservanza del principio presuppone, ovviamente, una pari dignità e, soprattutto, lealtà reciproca. È, inoltre, fondamentale, che ogni variazione dello status quo debba essere non notificato a cose fatte (perché a ciò possono benissimo provvedere le agenzie di stampa) ma preventivamente rappresentata all’alleato per le eventuali valutazioni alla luce delle mutate condizioni politico-militari. Vale quindi la regola del rebus sic stantibus, cioè la cristallizzazione della situazione all’atto della firma.
Sono i principi che l’arroganza nazista stravolge sistematicamente prima negli accordi di natura politica e poi in quello più importante di natura militare, pur di affermare la sua politica aggressiva ed espansionistica.
Il comportamento e l’atteggiamento tedesco, nell’alleanza con l’Italia, sarà sempre caratterizzato da una riserva mentale evidentemente determinata da un complesso di superiorità che trova in Mussolini uno sconsiderato stato di soggezione che lo induce ad accettare ogni iniziativa anche compromettendo gli stessi interessi nazionali. Prova ne sia l’acquiescenza dimostrata con l’Anschluss (annessione dell’Austria da parte della Germania) nel marzo del 1938: l’Italia si troverà alla frontiera del Brennero anziché uno Stato cuscinetto come l’Austria depotenziata dal Trattato di Versailles, la più forte e temibile Germania. Nella circostanza Mussolini viene meno anche all’impegno preso con i c.d. Protocolli di Roma del marzo 1934 fra Italia, Austria e Ungheria con i quali l’Italia si assume l’onere di garantire l’indipendenza austriaca proprio dalle mire pangermaniche della politica nazista.
Quanto sopra è la necessaria premessa per esaminare, serenamente, quanto avviene fra Italia fascista e Terzo Reich nazista negli anni di alleanza.
La direttrice espansionistica del Terzo Reich è verso l’Europa Orientale perciò, strategicamente, ha bisogno di una copertura a sud. Si rivela quindi indispensabile l’ alleanza con l’Italia, favorita dal fatto che nel fascismo trova un’analoga volontà di infrangere l’ordine stabilito, a conclusione della prima guerra mondiale, dal Trattato di Pace di Versailles del 1919. D’altronde il fascismo nasce con lo slogan della Vittoria mutilata e trova nel Terzo Reich, umiliato da Versailles, l’alleato ideale.
L’iniziativa per un’alleanza, prima politica e poi militare, è tedesca principalmente per superare l’ostacolo rappresentato dai Protocolli di Roma e mettere in difficoltà l’impegno dell’Italia. Hitler riesce ad ammaliare Mussolini avvolgendolo in una specie di tela di ragno prima con la proclamazione dell’Asse Roma-Berlino dell’ ottobre 1936 e poi con il Patto anti-Comintern, in funzione antisovietica, del novembre 1937. In questo clima, nel marzo 1938, Hitler crea le premesse per l’Anschluss che sarà incruento, realizzato, con la solita politica intimidatoria.
Mussolini, già attratto nell’abbraccio mortale del dittatore tedesco in seguito alle sanzioni per l’aggressione all’Etiopia, è avvertito, a cose ormai fatte e subisce. E uno!
La politica estera di Mussolini scivolerà sempre più verso una salda alleanza con la Germania nazista. È il passo per giungere, fatalmente, allo sciagurato Patto d’Acciaio firmato a Berlino il 22 maggio 1939, che lega militarmente l’Italia al Terzo Reich. Il Patto ha un preliminare a Milano dove, il 7 maggio, s’incontrano i Ministri degli Esteri dei due Paesi, Ciano e Von Ribbentrop: le Parti s’impegnano a sostenersi militarmente se aggredite. Purtroppo la clausola non è riprodotta nell’articolo 3 del Patto, la cui stesura è lasciata ingenuamente alla Cancelleria di Berlino, che omette la condizione dell’aggressione adottando una formula più generica ed ambigua: “essere trascinata in complicazioni belliche” senza precisare la responsabilità dell’iniziativa. L’omissione ribalta così, completamente, il senso dell’Accordo. E’ considerata sufficiente l’assicurazione, data a Milano da Von Ribbentrop, che non ci sarebbe stata guerra prima del ‘44/’45 anche in considerazione dell’impreparazione bellica dell’Italia. Il tutto mentre Hitler, col Protocollo Hossbach del novembre 1937, ha già illustrato, alle massime Autorità militari e politiche, le direttrici della politica espansionistica che prevede, in tempi brevi, le guerre di aggressione ad Est. La violazione del Patto d’Acciaio appena firmato è violato il giorno successivo: il 23 maggio Hitler riunisce, in gran segreto, i massimi esponenti politici e militari per predisporre il piano di aggressione alla Polonia. L’Aiutante di Campo di Hitler, ten. col. Schmundt, prende nota della riunione ed il testo, scritto di pugno, sarà poi rinvenuto dagli Alleati alla fine della guerra e citato al Processo intentato dai vincitori a Norimberga contro i massimi esponenti politici e militari nazisti. E due!
Intanto il 24 agosto un altro fatto importante turba – o dovrebbe turbare – la correttezza dei rapporti fra i due Stati: la firma di un Trattato fra il Terzo Reich e la tanto odiata Unione Sovietica. Le due dittature, col pretesto di un Patto di non aggressione, con un Protocollo segreto si spartiscono la Polonia costituendo le basi per la seconda guerra mondiale. Nonostante il primo articolo del Patto d’Acciaio obblighi a preventive consultazioni, Mussolini ne è informato, a cose ormai fatte, solo il giorno 21. Contestualmente è violato anche il Patto Anticomintern del 1937. E tre!
Nella circostanza a nulla vale che Ciano, il 21 agosto, quando viene a sapere che le trattative per l’Accordo nazi-sovietico prevedono solo l’atto formale della firma e la strategia di guerra nazista è ormai evidente, fa rilevare al dittatore-suocero la grave scorrettezza tedesca che, contro ogni intesa e logica politica, stravolge la strategia concordata. Arriva a suggerire, con inusitata veemenza, la denunzia del Patto d’ alleanza militare: ha capito, con notevole anticipo sugli altri, che dei Tedeschi non ci si può fidare! Mussolini si limita ad alcuni timidi passi, solo per tentare una soluzione pacifica del “problema polacco” (a ciò sollecitato anche da Francia e Gran Bretagna). Il Fuhrer, il 1° settembre 1939, ordina, autonomamente, l’attacco alla Polonia: è l’inizio della seconda guerra mondiale! E quattro!
Mussolini, nonostante la scorrettezza tedesca, continua per la strada intrapresa ed ha solo il coraggio di dichiarare, su inusitata pressione del Consiglio dei Ministri, la “non belligeranza”. I travolgenti successi tedeschi lo mettono però in uno stato di permanente angoscia per la preoccupazione di restare escluso dal tavolo dei vincitori: oltre alla Cecoslovacchia già smembrata nel 1938, i Tedeschi occupano la Polonia occidentale (lasciando quella orientale agli allora alleati Sovietici), la Norvegia, la Danimarca, l’Olanda, il Belgio ed il Lussemburgo. Il colpo di grazia sarà l’ attacco alla Francia il 10 maggio 1940. Mussolini è preso dalla smania di entrare in guerra. Così il 10 giugno si decide a dichiararla senza comunicarlo né al Gran Consiglio né al Governo: questa dovrà essere la sua guerra e la vittoria dovrà essere la sua vittoria! Sarà invece solo la sua fine e, purtroppo, con un grave prezzo per l’Italia.
La scorrettezza tedesca avrà altri più gravi aspetti. Solo una volta Mussolini, volendo ripagare Hitler con la stessa moneta, attaccherà la Grecia il 28 ottobre 1940, senza avvertire l’alleato: sarà un disastro. Hitler, da parte sua, persevererà nella politica del fatto compiuto attaccando l’Unione Sovietica, (e cinque!), così come ha già fatto per la Romania (e sei!) e la Iugoslavia (e sette!) anche se Mussolini riteneva che l’area balcanica dovesse rientrare nella sfera d’influenza italiana.
La conduzione della guerra è costellata, da parte tedesca, da mancanze di rispetto e di mortificazioni verso l’alleato. Non basta, a giustificazione, il fatto che le Forze Armate italiane, per i rifornimenti, dipendono, in massima parte (se non esclusivamente), dai Tedeschi. In Russia la nostra Armata non è avvertita del ripiegamento tedesco sul fronte del Don, ponendola nella tragica situazione di una ritirata precipitosa. Non sono infrequenti, nella circostanza, i casi di vera e propria aggressione a Reparti italiani per impossessarsi degli scarsi veicoli allo scopo di accelerare il ripiegamento. Lo stesso avviene in Libia dove il gen. Rommel ignora, di fatto, il Comando italiano pur trovandosi in territorio soggetto alla sovranità italiana. C’è di più: in Sicilia il gen. Hube, comandante delle Forze Tedesche, il 18 luglio 1943 – quindi quando ancora Mussolini non è stato destituito – riceve l’ordine di Hitler di condurre una strategia autonoma per contrastare l’avanzata Alleata, senza alcun contatto col Comando dell’Armata italiana.
Sono questi gli episodi più significativi del rispetto che i Tedeschi hanno per l’ alleato italiano che, secondo alcune menti ottenebrate da un’identità ideologica, non certo mossi da amor patrio, sostengono il dovere di restare al loro fianco fino alle estreme conseguenze per tener fede ad un’alleanza da tempo svuotata dalla realtà.
A costoro dedico alcuni episodi, scarsamente noti, avvenuti nella stessa Sicilia in quel periodo, quando vige ancora l’alleanza. A Mascalucia, Pedara, Castiglione di Sicilia ed a Tremestieri, paesi dell’area etnea, Reparti tedeschi cominciano a manifestare apertamente il metodo della violenza e del massacro contro le popolazioni violando, oltre l’alleanza, la sovranità territoriale italiana. Sono posti in essere gli stessi barbari sistemi già sperimentati in tutti i Paesi occupati. A parte episodi isolati di rapine ed omicidi in danno di inermi cittadini, il fatto più grave si registra il 12 agosto a Castiglione di Sicilia: un Reparto tedesco in ritirata mette a ferro e fuoco il paesino depredando e distruggendo le case e catturando circa 150 persone. All’atto di lasciare il paese, 16 cittadini sono barbaramente uccisi per rappresaglia. Le mattanze naziste in Italia hanno, quindi, una data d’inizio non solo mentre siamo ancora alleati ma non si sono ancora concretate trattative per uscire dalla guerra dei due caporali, Hitler e Mussolini.
C’è di più: la prova del tradimento tedesco è nella direttiva di Hitler al suo Stato Maggiore, il 26 luglio, di attuare un Piano, predisposto da tempo, per l’occupazione militare dell’Italia e l’arresto dei vertici politici e militari. Il Piano, col nome di “Alarico”, (dal re visigoto che distrusse Roma nel 410), riguarda l’Italia e la parte della Francia occupata dal nostro Esercito. Un altro, denominato “Costantino”, prevede l’annientamento delle nostre truppe nei Balcani ed in Grecia. E otto!
L’incarico del Piano Alarico è affidato al gen. Student, comandante delle truppe paracadutiste, che il 31 luglio s’incontra a Frascati con i massimi esponenti militari e delle “SS” in Italia per la messa a punto dei dettagli. Per intanto, viene inviata in Italia, la 2^ Divisione Paracadutisti che prende posizione a sud di Roma. Hitler sarà dissuaso dal gen. Von Rintelen, Addetto militare in Italia, che avrà il coraggio di esporgli, personalmente, gli effetti negativi che potrebbe avere un’azione di forza contro l’alleato. I due Piani saranno successivamente unificati con la denominazione “Asse”, che sarà attuato l’8 settembre, alla proclamazione dell’armistizio da parte italiana.
Intanto il gen. Student e il Cap. delle “SS” Otto Skorzeny sono incaricati anche di individuare la prigione del Duce con lo scopo di liberarlo e restaurare il Regime, chiara interferenza nei fatti interni di un Paese sovrano ed evidente violazione della sovranità nazionale. E nove!
Intanto, dal 27 luglio, entrano in Italia, senza preavviso, varie Unità tedesche, vale a dire quei rinforzi negati solo sette giorni prima nel Convegno c.d. di Feltre (svoltosi, per la realtà storica, alla periferia di Belluno). Viene così violata la sovranità nazionale. E dieci!
L’esito negativo degli incontri bilaterali del 6 agosto a Tarvisio e del 15 successivo a Bologna, determinano il Governo Badoglio, piuttosto titubante, a prendere la decisione definitiva dell’uscita unilaterale dalla guerra. I Tedeschi, ormai, hanno un atteggiamento diffidente ed arrogante e dispongono in Italia le truppe in posizioni strategiche di loro esclusivo interesse non, certo, per difendere il territorio nazionale, già mutilato. Inoltre, alcuni movimenti degli uomini del gen. Student, hanno creato allarmismo e sospetti. Per precauzione il luogo di detenzione di Mussolini, il 28 agosto, verrà spostato da La Maddalena all’area del Gran Sasso dopo che un ricognitore tedesco ha sorvolato la casa in cui era ospitato.
Le prime trattative del Governo Badoglio con gli Alleati, per un armistizio separato, inizieranno solo il 19 agosto con l’incontro, a Lisbona, del gen. Castellano con gli emissari militari Alleati. Le iniziative tedesche per inserirsi negli affari interni italiani, come si è visto, sono antecedenti. Documenti recenti hanno poi dimostrato, che già il 17 luglio, il Sottosegretario agli Esteri Bastianini, con l’assenso di Mussolini, s’incontra col Card. Maglione, Segretario di Stato Vaticano, per tentare un sondaggio con gli Alleati. Il banchiere romano Fummi, con l’obiettivo di raggiungere Londra, si reca anche a Lisbona con un passaporto diplomatico vaticano, dove, però, sarà sorpreso dagli avvenimenti del 25 luglio rinunziando a portare a termine la missione affidatagli. Quindi, tutto l’onore sbandierato a Salò, va, quanto meno, rivisto alla luce delle nuove risultanze. Salvo che al concetto di alleanza non si voglia dare, da parte fascista, il significato di subordinazione.
È sulla base di queste considerazioni, sull’atteggiamento e le iniziative dei Tedeschi soprattutto dopo il 25 luglio che va rivista la legittimità del concetto di alleanza.
Con la caduta di Mussolini Hitler ritiene di aver perduto l’interlocutore garante del Patto perciò ordina di adoperarsi per la sua liberazione e ripristinare il fascismo.
D’altronde, va evidenziato, il preambolo del Patto d’Acciaio fonda esplicitamente l’Accordo non fra i due Stati ma fra le due rivoluzioni, fascista e nazionalsocialista.
Occorre quindi chiedersi se si possa contestare ad un Governo, minacciato da un’aggressione, di attuare una sua autodifesa e se si debba sentire ancora legato da un impegno di fedeltà verso chi attenta, concretamente, alla sua sovranità, con un programma già predisposto di cattura dei suoi vertici politici e militari. Una cosa è certa: il Governo Badoglio non si pone subito l’obiettivo dell’uscita unilaterale dalla guerra. Ha dapprima cercato, inutilmente, di ricevere un tangibile aiuto dall’alleato per la difesa del proprio territorio. Appare invece chiaro il disegno strategico tedesco che tende solo a procrastinare l’avvicinarsi degli Alleati al proprio territorio, incurante degli interessi italiani.
Subentra quindi, per il Governo italiano, l’esigenza di invocare lo stato di necessità costituito dal grave pericolo che minaccia l’esistenza dello Stato, la sua integrità territoriale e la sua indipendenza. È questo principio, valido nel diritto pattizio internazionale, che può essere invocato nella rescissione unilaterale del Patto. Va poi considerato che è dovere istituzionale non lasciare distruggere completamente il Paese, in una situazione senza speranza, come farà la Germania nazista. Chi ha la responsabilità delle sorti del proprio Paese, non ha certo il diritto di spingere tutta una Nazione al suicidio, col pretesto che l’onore esige il diabolico perseverare nell’errore commesso da un individuo o da tutta una classe dirigente.
Ma al di là di giustificazioni giuridiche, vanno considerate anche motivazioni morali: la guerra di Hitler è notoriamente una guerra di aggressione, di violazione di diritti umani e naturali, di sottomissione di altri popoli considerati di livello inferiore, per cui l’abbandono si ammanta anche di considerazioni etiche. Non è nella natura civile e morale del popolo italiano condividere disegni politici criminali. Sul comportamento da tenere nei confronti del “tiranno”, si occuperà, nel 1967 l’Enciclica “Populorum progressio” di Papa Paolo VI: “non può essere considerato tradimento l’azione, anche segreta, per fermare chi danneggia il suo e gli altri popoli”.
La stessa direttiva del Governo Badoglio alle Forze Armate di “reagire solo se attaccati” dimostra solo la volontà italiana di un’uscita unilaterale dalla guerra e non, come sostenuto comunemente, di un cambio di campo.
Torniamo al principio latino “Pacta sunt servanda”, citato all’inizio. Esso è ampiamente illustrato da Ulpiano nel capitolo “De pactis” del Digesto. In esso è espresso un altro concetto fondamentale del quale occorre tener conto, secondo cui il “Patto non è valido se va contro le leggi, le costituzioni ed i buoni costumi,”. È, quindi, anche alla luce di questi principi, risalenti al diritto romano, che va letta l’intera vicenda di un’alleanza innaturale: già la violazione dei buoni costumi, cui accenna Ulpiano, riferita alla politica nazista, sarebbe stata valido motivo perché fosse automatica una dissociazione.
L’uscita unilaterale dell’Italia dalla guerra fu, quindi, determinata anche da motivazioni giuridiche e morali, ampiamente riconosciute dal diritto internazionale.
In definitiva, non fu l’Italia a tradire ma il Terzo Reich!
Giuseppe Vollono
(prima edizione, agosto 2004, sul mensile “Noi Polizia”)
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