T
empesta britannica. Nella presentazione del Rapporto Annuale della Banca Centrale Europea, il Presidente Draghi ha messo in luce i progressi raggiunti in Europa, grazie in particolare all’azione della politica monetaria espansiva e all’assistenza data alla Grecia con le linee di credito di emergenza durante la scorsa estate.
Draghi ha però reso evidente che non si possono escludere nuovi shock all’economia mondiale, e che la tenuta dell’Europa nel caso questi avvenissero è incerta. Fuori dall’Europa, la preoccupazione è principalmente per la Cina, il Brasile e gli effetti del basso prezzo delle materie prime, soprattutto sui Paesi produttori di petrolio.
L’altro ieri l’Angola, proprio come conseguenza del basso prezzo del petrolio, ha richiesto formalmente al Fondo Monetario Internazionale un programma di aiuti. Per Paesi come il Qatar, Bahrein, e Arabia Saudita, più dell’80 per cento delle entrate fiscali derivano dal petrolio e i bassi prezzi non fanno che determinare enormi deficit pubblici, che richiederanno un ripensamento dei modelli di business. Come e quanto in fretta questi Paesi sapranno adattarsi alla nuova realtà è incerto, e questa incertezza può avere conseguenze economiche e geopolitiche destabilizzanti.
Il Brasile ha un mix di alta inflazione, bassa crescita, alto deficit pubblico e crisi politica e non si può escludere che, dopo i Giochi Olimpici di questa estate a Rio, questo insieme di elementi non si trasformi in una crisi economica profonda. Il Brasile ha a disposizione molte riserve valutarie, che gli potrebbero permettere di gestire una crisi finanziaria, ma potrebbe avere invece bisogno di un programma di assistenza da parte della comunità internazionale per portare avanti profonde riforme economiche.
Il rallentamento dell’economia cinese rispetto ai ritmi di crescita degli anni precedenti potrebbe causare i primi fallimenti del sistema bancario locale, a causa dell’alto livello di indebitamento del settore privato. Data la dimensione dell’economia cinese, non possono escludersi ripercussioni sistemiche sul resto del mondo.
Ma anche in casa nostra abbiamo potenziali shock da gestire. Un’eventuale vittoria per l’uscita dall’Unione Europea nel referendum inglese del 23 giugno aprirebbe una lunga fase di incertezza: secondo l’articolo 50 del Trattato di Lisbona, dopo il referendum il Consiglio Europeo avrà a disposizione due anni per definire le modalità di uscita e se non venisse raggiunto nessun accordo si potrebbe estendere questo periodo se ci fosse l’accordo di tutti gli Stati. Come ciò verrà gestito non è noto.
L’inflazione della zona dell’euro rimane ancora troppo bassa malgrado la politica monetaria non convenzionale della Banca Centrale Europea e non si può escludere a priori una spirale deflazionistica, specialmente se la fiducia sulle capacità del continente di gestire eventuali shock venisse meno.
E poi c’è la Grecia. Malgrado la conclusione della prima valutazione intermedia del programma di assistenza fosse prevista a ottobre dello scorso anno, c’è ancora una serrata discussione tra il governo greco e le istituzioni creditrici su alcuni punti fondamentali relativi alla riforma pensionistica e fiscale. Una brusca interruzione dei rapporti, o la decisione del Fondo Monetario Internazionale di non partecipare più alle negoziazioni, potrebbero farci rivivere la crisi della scorsa estate.
In questo contesto la fragilità dell’Europa è evidente. Ma è evidente anche la sua forza, se saprà ben orientare le sue politiche. Primo, va scongiurato il rischio Brexit: è necessario far comprendere all’opinione pubblica inglese che l’uscita dall’Unione avrebbe conseguenze economiche importanti, un recente studio di alcuni ricercatori della London School of Economics mostra ad esempio che il reddito pro capite degli inglesi potrebbe ridursi fino a quasi il 10 per cento rispetto agli attuali valori.
Secondo, bisogna dare una direzione chiara alla politica fiscale. Il debito pubblico è troppo alto, ma anche le tasse sono troppo alte e la spesa pubblica in alcuni campi è invece troppo bassa. Tale complessità non può essere risolta attraverso qualche decimale di flessibilità sui bilanci nazionali ma solo con un ripensamento generale delle regole europee, e in particolare del trattamento da dare agli investimenti in infrastrutture, ricerca e capitale umano. Dato il livello alto del debito nazionale in molti Paesi europei, è il momento di immaginare una europeizzazione del debito, con una agenzia europea che emetta debito fino al 5-10 per cento del Pil europeo, con lo scopo specifico di finanziare le tre aree menzionate: infrastrutture, ricerca, capitale umano. Sarebbe una spinta alla crescita e un segnale di ulteriore integrazione.
Terzo, non ci si può rilassare sul piano delle riforme. Completare rapidamente e bene alcuni dei grandi progetti europei come il mercato energetico unico o il mercato dei capitali unico, e allo stesso tempo continuare con le riforme nazionali – sulle quali, sia detto per inciso, l’Italia sta dando un esempio positivo al resto dell’Europa – è fondamentale per mantenere un clima positivo di fiducia.
Insomma, un ritorno a un sentiero di crescita economica più sostenuto e stabile nel tempo è l’unico antidoto al clima di antieuropeismo e alla sfiducia che sta montando presso le opinioni pubbliche di molti Paesi.
*Direttore Global Business and Economics, Atlantic Council
@MontaninoUSA
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