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el suo commento su La Stampa, Massimiliano Panarari affronta il tema della realtà aumentata che in un futuro molto vicino potrebbe sbarcare sui nostri smartphone. “Una rivoluzione cognitiva e sensoriale che mescola elementi fittizi all’ambiente reale” ma anche un’eventualità che “apre scenari da gestire bene” per evitare “di inseguire paradisi artificiali”.
L’ultima frontiera della realtà aumentata
La «realtà aumentata» ha smesso da qualche tempo di essere materia da romanzi cyberpunk per divenire «realtà pura e semplice» in vari settori, dalle simulazioni di volo ad alcune mostre d’arte e archeologiche. Ma con la sua potenziale estensione allo smartphone, ci troviamo alla vigilia del compimento di un autentico salto di qualità, perfino più degli occhiali su cui Apple pure starebbe lavorando (per rivaleggiare con Google Glass). Perché il «telefonino intelligente» è ciò che possiamo ormai considerare, in tutto e per tutto, alla stregua di un’appendice, in grado di farci stare nel nostro ambiente in maniera «potenziata»; una sorta di protesi post-umana (specie per le generazioni più giovani). Le esperienze individuali sono già vissute attraverso i media che rappresentano e filtrano l’universo in cui viviamo (un fenomeno riconosciuto nitidamente, alla fine della Prima guerra mondiale, dal grande giornalista e politico Walter Lippmann). E, di fatto, in questa nostra epoca, i mezzi di comunicazione di massa spesso già generano una realtà aumentata (si pensi soltanto al dilagare di photoshop), ossia la abbelliscono e arricchiscono, presentandone una versione più «godibile». Ma si tratta ancora di una fruizione «collettiva» eterodiretta: quando verrà messo sul mercato l’iPhone con l’augmented reality diventerà invece possibile risultare attori e performer del proprio habitat, riscrivendolo secondo i propri gusti e desideri, calandosi in un universo animato e interattivo (quasi fosse un videogioco) tutto personale. Una rivoluzione cognitiva e sensoriale sul serio, poiché la realtà aumentata mescola all’ambiente reale degli elementi fittizi, allargando altresì in modo straordinario le opportunità del marketing e gli strumenti di influenza della pubblicità.
Insomma, tra simulacri e fiction che trasforma l’immaginazione in oggetti reali, siamo alla realizzazione definitiva delle profezie di Jean Baudrillard sulle società postmoderne come regno della simulazione che sostituisce la realtà, e si fa iperrealtà. Ora, davvero, a portata di mano e tastiera, e a colpi di iPhone. Alla ipervetrinizzazione (come l’ha chiamata il sociologo Vanni Codeluppi) e alla costante messa in mostra di noi stessi si affianca la facoltà «prometeica» di rifare a nostro piacimento l’ambiente ravvicinato in cui ci muoviamo. E dall’autorappresentarsi con un selfie si passa all’agire dentro la (non solo virtuale) realtà aumentata. E scusate se è poco. Con un rovescio della medaglia, tuttavia, che apre scenari da gestire bene, se non si vuole finire sprofondati in una distopia alla Philip K. Dick. Si tratta del rischio evidenziato dalla psico-sociologa del Mit Sherry Turkle quando, nel suo libro Insieme, ma soli (Codice, 2012), raccontava dell’esperienza dei visitatori del parco della Disney «Animal Kingdom», i quali si rivelavano delusi dagli animali in carne e ossa perché meno interessanti e – giustappunto, tutt’altro che un paradosso nel mondo fattosi iperreale – dall’apparenza meno «realistica».
E, allora, per non «sognare come dei replicanti», e non inseguire dei paradisi artificiali, servono anche, più che mai, dei bagni quotidiani di realtà (da intendersi, in questo caso, come l’antitesi di una certa dilagante post-verità).
@MPanarari
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