Oltre i numeri: la pandemia ha anche un lato umano. Lo esploriamo attraverso il racconto dei fuorisede per descrivere la realtà di oggi.
Oltre i numeri: l’addio dei fuorisede alla loro nuova vita
T
ra gli articoli e i servizi dedicati in questi mesi alla descrizione della perdita umana e sociale dovuta al virus abbiamo letto dei sacrifici del personale sanitario, dello sconforto e del lutto di chi aveva perso i propri cari, ma anche della distanza imposta tra familiari e “congiunti” che vedevano inasprirsi le misure tese ad allontanare chi, di per sé, già da lontano si voleva bene.
Tra loro, i fuorisede: ragazzi che da tutte le zone d’Italia si spostano per studiare all’università dei sogni. Tutto ciò, lontani chilometri da casa, dagli affetti e da una quotidianità che, per scelta o necessità, si sono lasciati alle spalle.
Un vero e proprio processo di transizione: le amicizie di una vita si allentano o, per i più fortunati, trovano modo di rimodularsi attraverso mille altri modi per sentirsi vicini. Il rito delle videochiamate, della preparazione del pranzo al telefono con la mamma (i cui consigli se prima erano mal tollerati, ora hanno il sapore dei più autorevoli tra gli chef) non sono una novità per loro. Ma in tempi di pandemia, si sa, ogni sacrificio si inasprisce e ha il sapore di qualcosa che ci è stato tolto.
Le distanze si allargano e oggi, con la riunione del governo e del Ministero della Salute per la rimodulazione delle misure da applicare in un’Italia divisa in tre, le fermate dei pullman sono stranamente vuote.
Forse perché in attesa dell’ufficialità dei nuovi provvedimenti, chi in zona rossa non c’è ancora ha l’arduo compito di decidere: tornare o restare a casa, perché casa è anche il luogo in cui ragazzi e ragazze hanno sacrificato per anni (o avevano appena iniziato a farlo) il loro tempo libero. Per studiare, lavorare, costruirsi un futuro in un Paese che avrebbe molto da offrire ma stenta a lasciare andare i suoi giovani. Sempre con la promessa che le cose miglioreranno.
Ma come potrebbe succedere, se la fine della pandemia, seppur lontana, non lascerà il Paese nella speranza di una crescita economica, ma solo con quella di un ristabilimento (sempre lento, sempre lieve) della situazione precedente?
Vivere fuori casa significa costruirsene una nuova. E la pandemia mette a dura prova proprio loro: quelli che con sforzi, sacrifici e un pizzico di fortuna hanno saputo ricostruire una vita da giovane in un Paese in cui, ai giovani, non è chiesto altro che studiare, laurearsi e trovare lavoro. Tutto ciò, nel minor tempo possibile; subito, immediatamente.
Come si fa a dire addio un’altra volta a una vita e a una socialità costruite con le proprie forze? Senza l’istituzione scolastica alle spalle che favorisse l’interazione, senza le radici amicali di una vita? Tutto ciò, dopo aver scoperto davvero se stessi. E averlo fatto solo dopo aver abbandonato il nido.
La società italiana, si sa, è in antitesi con quella del sogno americano. Si tende a stare a casa, protetti, per più del tempo necessario. Ma chi ha deciso di compiere lo scarto, il salto in avanti, e ha imparato a pagare le bollette al compimento dei vent’anni, si trova oggi davanti ad una scelta le cui opzioni lasciano ugualmente con l’amaro in bocca. Restare a casa. Ma quale?
Napoli, piazza Bovio. Due ragazzi si salutano prima che uno dei due salga su un pullman per Caserta. La circolazione tra le province, si sa, in Campania è interdetta. Il ragazzo l’accompagna: “addio,” dice scherzosamente. “Ricordati a cosa sono allergico. Agli acari, alla polvere e alla forfora di gatto”. La ragazza ride e sembra un saluto a cuor leggero.
Non si sa quando si rivedranno. Ma le piccole cose restano, e trovano il modo di accorciare le distanze.
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