Nel 1948 gli exit poll elettorali, condotti solo via telefono, allora gadget di lusso, previdero la vittoria del candidato repubblicano alla Casa Bianca, Dewey, sul presidente democratico uscente Truman.
Contati i voti vinse invece il saggio Harry Truman, che si fece fotografare ridendo con la prima pagina del «Chicago Daily Tribune» dal titolone sballato «Dewey defeats Truman». La vittoria era la quinta di seguito dei democratici, dopo le quattro presidenze di F. D. Roosevelt e da allora il partito non è più riuscito a vincere le presidenziali per tre volte di fila. Johnson non si ricandida nel 1968, umiliato dal Vietnam, e da quell’anno fino al 1992, i democratici prevalgono solo una volta, nel 1976 con Carter. Gore, con il pasticcio del voto in Florida, non prolunga i due mandati di Bill Clinton, e dunque il sogno del presidente Barack Obama – che nella notte di martedì ha letto l’ultimo discorso sullo Stato dell’Unione – è far vincere l’ex segretario di Stato Hillary Clinton, ottenendo lo storico «triplete», il primo del XXI secolo, e la garanzia che la sua eredità, dalla riforma sanitaria all’accordo nucleare con l’Iran, non verrà smantellata.
Era un Barack Obama lucido, maturo ma senza gli slanci 2008, quello di martedì. Non ha chiesto nulla al Congresso, controllato dai repubblicani, perché sa che nulla gli sarà concesso, e, per la prima volta, ha ammesso lo scacco che la Storia gli rimprovererà, non essere riuscito, in alcun modo, a ridurre il livore che ottunde il dibattito politico americano. Non voglio un paese che si colori sul volto simboli tribali – scriveva otto anni or sono Obama – siamo americani, non militanti. Con i capelli incanutiti dalla fatica di quello che John F. Kennedy chiamava «il più solitario lavoro al mondo», Obama riconosce la sconfitta «siamo più divisi che mai», dichiarando con umiltà che «sarebbero serviti i talenti di Lincoln o Roosevelt» per unire un paese diviso da crisi economica (la tecnologia distrugge posti di lavoro per gli operai, osserva Obama) e guerra delle identità.
Senza nominare né i media, né il capofila dei candidati repubblicani, il populista Donald Trump, Obama si chiede come mai i giornalisti diano tanta attenzione alle voci stridule, e mette in guardia il paese: criminalizzare tutto l’Islam isola l’America, non la rende più forte. Né, ammonisce con amaro realismo il giovane Presidente che fece innamorare il mondo, gli Stati Uniti possono costruire libertà e democrazia dove non ci sono, «è l’amara lezione di Vietnam e Iraq».
Il presidente ha concluso col calore da sermone della chiesa battista, che da qualche tempo accende la sua cerebrale prosa, «continuerò la battaglia da cittadino», richiamando le virtù civiche del votare, del partecipare, del dibattere insieme nella comunità, care all’America dei film di James Stewart, con Mister Smith che va a Washington, di Frank Capra, delle tavole domenicali del pittore Norman Rockwell, una democrazia popolare e condivisa, perduta nell’epoca delle lobby miliardarie e dei candidati loro robot. È la crociata, isolata, del senatore democratico Sanders, socialista del Vermont, che gli ultimissimi sondaggi danno in rimonta sulla Hillary Clinton nei primi caucuses, assemblee elettive, dell’Iowa e alle primarie in New Hampshire. Obama, con cautela, la premia, da «cittadino» si impegnerà contro i troppi soldi in politica.
Nell’ultimo discorso, in sostanza, un Obama doc, valori, idee, ideali, ma senza piattaforma di contratto negoziale, per condividerli con l’opposizione e senza la spregiudicatezza del politico capace di trasformare le aspirazioni in leggi approvate a maggioranza. I pericoli indicati sono reali, ma ora sarà la Storia a giudicare il presidente Obama, in attesa di ascoltare la voce, prossima e sicura di sé vedrete, del Cittadino Barack.
* Facebook riotta.it / lastampa
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