I
l giorno dopo le bombe carta lanciate contro l’ex Moi, sono i profughi a far vedere i segni lasciati dall’attacco. Parlano della rivalità accesa che, negli ultimi giorni, sarebbe scoppiata tra alcuni di loro e una parte degli ultras granata. Su questi episodi, adesso, sta cercando di far luce anche la procura.
Bombe carta e guerriglia a Torino. Il prefetto chiede aiuto all’esercito
Tre ordigni lanciati per vendetta dopo una rissa. Gli abitanti esasperati: abbiamo paura Centinaia di africani in rivolta: “Italiani razzisti, la polizia ci controlla e non ci difende”
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Ma la realtà è che tutta questa tensione è nata da un’aggressione in un bar. Si spiegherebbero così i grossi petardi da stadio lanciati contro gli immigrati che vivono nell’ex «Moi», il complesso di palazzi colorati costruiti per accogliere gli atleti dei giochi invernali del 2006, oggi rifugio per più di mille africani. Domenica scorsa va in frantumi la vetrata di un locale storico degli ultras del Torino, a due passi dal villaggio. La colpa ricade su un africano che vive con la raccolta di ferri vecchi. È bastato questo per scatenare la vendetta. La risposta arriva mercoledì sera. Prima due petardi scoppiano davanti a una sala scommesse del Lingotto, a nemmeno duecento metri dal complesso del Moi. Poi, direttamente all’ingresso delle palazzine. «Un’azione militare», racconta chi si è affacciato ai balconi, spaventato per le esplosioni. Ci sono venti uomini, alcuni nascosti sotto sciarpe e berretti. Li vedono allontanarsi uniti da quell’angolo di strada, prima di sparpagliarsi.
«Italiani razzisti. La polizia ci controlla ogni giorno ma non ci difende», urlano i ragazzi in piedi sui cassonetti ribaltati. Prima dell’arrivo delle forze dell’ordine, i passanti bloccano il traffico: le auto intrappolate tra i piazzali e il presidio vengono prese a calci e gli automobilisti minacciati. Passano ore prima che i mediatori riescano a riportare la calma.
La tensione, però, resta alta. Come un patto che si è sciolto. «Sono giorni che ci provocano, minacciano con i coltelli i nostri amici», raccontava ieri un ragazzo del Ghana. «Aspettano che ci scappi il ferito, magari il mordo, per poterci cacciare via. Tutti quanti». Lo sfondo è quello di un quartiere sempre più stanco, a ridosso del centro di Torino, che nel giro di otto anni ha visto entrare più di mille stranieri in quattro palazzi lasciati troppo presto al loro destino. Una città nella città, guardata a vista dalle forze dell’ordine, ma dove entrano soltanto le associazioni legate ai centri sociali. E dopo i proclami, la voce dello sgombero si fa sempre più concreta. Il piano, hanno assicurato pochi giorni fa dal Municipio e dalla prefettura di Torino, sarà pronto entro la fine dell’anno. Ma sarà un «intervento graduale», preceduto da un censimento degli occupanti.
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