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Il Mediterraneo fra trivelle, navi cisterna e turismo, Medtrends : “Così rischia di collassare”

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Il progetto Medtrends del Wwf illustra le sette “attività conflittuali” nei nostri mari. E mette in guardia: “E’ il bacino con più turisti al mondo e quello più inquinato, basta con petrolio e gas”

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UL PICCOLO Mar Mediterraneo, lo 0,8 per cento degli mari del mondo, si muove il 25 per cento del traffico mondiale di idrocarburi (due terzi dei quali approdano altrove, tra l’altro). La pressione è notevole: ogni anno nel mare african-europeo vengono rilasciate tra le 100 mila e le 150 mila tonnellate di idrocarburi (la fonte è l’Unep, il programma ambientale dell’Onu) che regalano, oggi, alle acque temperate di casa il primato per la densità di catrame pelagico: è il triplo del Mar dei Sargassi, che segue in questa classifica, e dieci volte la media registrata su tutti i mari aperti. Il greggio che si deposita sui fondali ha effetti cancerogeni e mutageni sulla fauna di fondale che durano decenni.

Il rapporto finale del Wwf del gennaio scorso – “Progetto Medtrends, tendenze dei potenziali impatti ambientali e conflitti nei mari italiani” – mostra la rischiosa sovrapposizione di attività economiche nel bacino. Sono sette i settori economici presi in considerazione, tra questi l’attività estrattiva che riguardale le 88 trivelle “entro le dodici miglia” che domani saranno sottoposte a referendum. Progetto Medtrends ha preso in esame gli otto paesi europei di costa e segnala come nei prossimi quindici anni queste attività cresceranno notevolmente “e si accentueranno i conflitti tra diversi settori economici facendo emergere potenziali impatti ambientali”. Una corsa all’oro non governata sta trasformando l’economia blu in un affare non sostenibile. Le trivelle, sostiene il rapporto, hanno una loro aliquota di responsabilità. Già. Le attività di esplorazione, estrazione, trasporto e stoccaggio del petrolio e del gas sono aumentate in particolare nei paesi che tradizionalmente non sono produttori di petrolio come la Croazia, Cipro e, appunto, l’Italia.

mari italiani sono preziosi. Delle 8.750 specie elencate nelle liste che indicano le biodiversità marine, il 10% è nota esclusivamente da noi. Delle dieci specie di cetacei presenti nel Mar Mediterraneo otto sono anche nelle acque italiane (balenottera comune, capodoglio, delfino, globicefalo, grampo, stenella, tursiope, zifio). Le dune di sabbia occupano più di 3.000 chilometri di costa e 27 aree marine protette e 2 parchi sommersi tutelano 228mila ettari di acque.

Tutti gli 8300 chilometri delle coste italiane sono interessati da un elevato livello di urbanizzazione: il 30% della popolazione vive nei 646 comuni affacciati sul mare. Negli ultimi 65 anni sono stati consumati 10 chilometri di suolo l’anno, indifferentemente sulla costa adriatica, quella tirrenica, in Sicilia e in Sardegna. Secondo i dati di Federutility (la Federazione delle imprese energetiche e idriche), due italiani su dieci non dispongono di rete fognaria, tre su dieci sono senza depuratori e 9 milioni al Sud in particolare hanno seri problemi di approvvigionamento idrico. In questo contesto da “crisi ambientale” lo sfruttamento degli idrocarburi è uno dei fattori rilevanti di pressione antropica sui mari italiani. I ventidue permessi concessi per l’estrazione “al largo” e le sessantanove concessioni di coltivazione (dati del 2014) occupano 140 mila chilometri quadrati, che rappresenta un quarto della superficie delle acque nazionali. Nel settembre 2013 è diventato operativo il divieto delle attività nella fascia di 12 miglia marine dalle costa, ma sono stati fatti salvi i procedimenti in corso alla fine di giugno 2010 nel Medio e Basso Adriatico, nel Canale di Sicilia ed è stata inserita una nuova zona di sfruttamento grande quanto la Corsica tra la Sardegna e le Baleari.

La movimentazione di prodotti petroliferi verso 14 porti italiani è il tipo di carico più importante nel traffico merci. Il trasporto marittimo ha impatti negativi sull’ambiente marino, tra cui inquinamento, sversamenti di petrolio e di agenti chimici, introduzione di specie non autoctone attraverso pratiche errate di eliminazione delle acque di zavorra. Ed è una delle cause principali di collisioni con mammiferi marini. In 22 anni – dal 1985 al 2007 – nel bacino del Mediterraneo si sono verificati 27 gravi incidenti con un versamento complessivo di 270.000 tonnellate di idrocarburi. Solo la Haven naufragata nel 1991 al largo di Genova aveva un carico di 144.000 tonnellate di petrolio: siamo il paese maggiormente colpito da questo tipo di incidenti, seguiti a grande distanza da Turchia e Libano.

Analizzando le sette (conflittuali) attività di mare, il rapporto segnala che nel Mediterraneo è cresciuta fortemente l’acquacoltura, con tassi di sviluppo regionali del 70% tra il 1997 e il 2007. E’ diminuito il pesce in mare, è aumentato il suo consumo: il pesce d’allevamento è stata la soluzione. In particolare, la molluschicoltura, quindi gli allevamenti di branzini (o spigole) e di orate. Gli impianti di acquacoltura, d’altronde, sono distribuiti su quasi tutta la costa italiana.

Il turismo costiero, ancora, rappresenta il 35% del totale del mercato turistico italiano: con 47mila esercizi e 1.592.580 posti letto, l’Italia rappresenta il più grande mercato di destinazione crocieristica d’Europa, cresciuto del 6,37% in un solo anno dal 2014 al 2015, con 10,9 milioni di passeggeri finali. Nel 2012 i porti italiani hanno registrato 6,5 milioni di accessi, secondo l’Italian Cruise Watch nel 2014 Venezia e Civitavecchia sono state le destinazioni più scelte dalle principali compagnie di crociera.

Ecco tra le sette economie presenti nel Mediterraneo – ricapitolando: attività estrattiva in mare e turismo; pesca, acquacoltura e traffico merci; estrazione di petrolio e gas a terra e attività militari – il conflitto è crescente. E la mancata regolazione, dice il rapporto, può portare a uno scontro economico che depaupera patrimoni naturali, sottrae ricchezza ed è premessa per disastri ambientali.

Per l’organizzazione ambientalista Wwf non vale la pena puntare sulle trivelle: l’attività estrattiva vale in tutta l’area mediterranea (a terra e in mare) 300 mila posti di lavoro, quando l’industria turistica (nel Mediterraneo arriva il 31 per cento dei turisti del mondo) garantisce 7 milioni e 642 mila posti di lavoro. Trasformati in euro, fanno 19 milioni l’anno contro 348 milioni. “Se una piattaforma mediterranea avesse un incidente simile a quello accaduto nel Golfo del Messico nell’aprile 2010, il venti per cento del nostro mare sarebbe coperto di petrolio”. La tesi finale del Wwf è: “Il rischio che corriamo è molto superiore ai benefici che ne riceviamo”.

vivicentroit-cronaca / larepubblica / Il Mediterraneo fra trivelle, navi cisterna e turismo: “Così rischia di collassare” di CORRADO ZUNINO

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