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Castellammare di Stabia

MAHACHAI. Gli schiavi liberati dalla prigionia del mare diventati eroi da Pulitzer

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AHACHAI (Sud Thailandia). Zaw Phan Naing è uno di quelli che ce l’hanno fatta a sfuggire alle prigioni galleggianti dove non c’è notte e non c’è giorno per chi pesca gamberetti, tonni e specie marine destinate ai mercati del mondo. Oggi aspetta il rimpatrio in Birmania recluso in una struttura di “controllo e detenzione” del governo thailandese che chiamano Chatra, a nord di Bangkok. Non ha fatto niente di male, ma chi lo ha reso schiavo ne ha fatto anche un “clandestino”, costretto come tutti gli immigrati illegali a subire ogni forma di abuso.

“In mare siamo solo braccia e gambe – racconta cercando di non farsi sentire dai guardiani del centro – se qualcosa non funziona ti gettano fuori bordo in pasto ai pesci. Ho visto con i miei occhi morire così un ragazzo che protestava perché era malato e lo costringevano a issare le reti, il più faticoso dei lavori”.

Altri ragazzi birmani ospiti dello stesso centro spiegano che gli schiavi delle barche sono ovunque, ma invisibili nel vasto Oceano tra il Golfo della Thailandia, l’arcipelago indonesiano e giù verso le coste australi di Papua Nuova Guinea. Provengono da ogni stato dell’Unione del Myanmar, ma ci sono cambogiani, laotiani e qualche thailandese che in genere comanda la ciurma.

Nella città portuale di Mahachai non li vedi passeggiare sul molo a chiacchierare o fumarsi una sigaretta, come fanno quelli che lavorano con tanto di tesserino e permesso di soggiorno in una delle numerose fabbriche di trasformazione del pesce. I pescatori clandestini non possono mettere piede a terra nemmeno dopo lunghe navigazioni perché non hanno documenti o gli sono stati sequestrati. Solo gli operai regolari, che pure vengono dalla stessa miseria, girano con un grembiule e una cuffietta di cotone con sù scritto il nome della ditta, quasi sempre la Thai Union, la più grande manifattura di scatole di tonno e crostacei del pianeta. Ma non sfugge il fatto che a Mahachai siano tutti – compresi i pescatori clandestini – dipendenti dalle stesse quattro, cinque famiglie thailandesi proprietarie di barche e industrie.

Anche i turni alle macchine di preparazione del prodotto in scatola sono lunghi e defatiganti, e una parola di lamentela potrebbe costare le punizioni corporali dei capireparto o un taglio sulla paga. Eppure nessun operaio scambierebbe il suo lavoro con quello dei pescatori. Secondo un rapporto della Fondazione EJF, il 59 per cento delle vittime dei traffici ha assistito all’omicidio di un compagno (nel 2015 ai confini con la Malesia vennero trovate fosse comuni con le vittime del traffico di esseri umani), e nonostante i tentativi dei generali thai di ribaltare l’immagine del Paese che permette tali crudeltà, il commissario europeo per l’ambiente e la pesca, Karmenu Vella, ha detto in una conferenza stampa a Bruxelles che “non ci sono controlli di sorta e nessuno sforzo viene fatto, così che la pesca illegale è quasi totalmente permessa”.

Il caso degli schiavi del mare è esploso lo scorso anno sui media mondiali quando testimonianze analoghe a quella di Zaw Phan sono state raccolte tra i profughi arrestati per pesca illegale in Indonesia e lasciati all’addiaccio sotto una blanda sorveglianza (non saprebbero dove andare) su atolli come Benjina, o lungo le coste di Ambon. L’inchiesta della Associated press premiata con il Premio Pulitzer parlò di migliaia di persone rimaste per anni “prigioniere” degli schiavisti che procurano pesce alle grandi compagnie multinazionali, parte delle quali sono ancora in attesa di tornare dalle loro famiglie.

Da allora sono stati circa duemila gli schiavi rimpatriati, ma si tratta di una minima parte di quei centomila dati per dispersi negli ultimi anni a bordo dei 57mila natanti che salpano ogni anno dal Golfo di Thailandia per cercare acque più pescose e distanti. Qui il patrimonio ittico si è infatti ridotto dell’80 per cento in mezzo secolo di pesca selvaggia, ma l’industria nazionale richiede gli stessi milioni di tonnellate di prodotto per mantenere il terzo posto conquistato tra i più grandi esportatori del mondo.

L’attivista birmano Kyaw Thaung, direttore della Myanmar association in Thailand, spiega che il 98 per cento della flotta da pesca thai è composto di barche e navi fantasma senza alcuna registrazione, luoghi senza legge dove si cambia bandiera secondo la convenienza, anche se la ciurma di 30-50 uomini è sempre la stessa per anni e anni, arruolata fin dall’inizio a condizioni capestro dai mediatori thai e birmani che prendono un anticipo per la loro “compravendita” prima di affidare l’equipaggio al capitano di una nave e ai suoi uomini armati. A questo punto è troppo tardi per fuggire. “In mare passa un tempo che sembra eterno – ricorda Zaw Phan – con l’incubo della morte e il pensiero che non rivedrai più il villaggio della tua famiglia. Ogni giorno vorresti farla finita…”.

La sorte di migliaia di queste vittime della tratta di braccia che coinvolge autorità di frontiera, capitanerie di porto, politici e governi locali corrotti, è nota da molti anni alle autorità internazionali delegate a vigilare sull’applicazione delle norme del lavoro. Ma dalla Thailandia continuano a partire milioni di tonnellate di merce verso gli Stati Uniti che pure avrebbero dovuto imporre l’embargo dopo aver declassato nel 2015 il Regno al livello 3, il più basso dei parametri di rispetto dei diritti umani. A ruota la stessa Unione europea – acquirente nel 2013 di 145.907 tonnellate di pesce d’incerta origine per un valore di 700 milioni – aveva intimato al governo di Bangkok di mettersi in regola se voleva continuare a vendere nel Vecchio Continente, un mercato florido che vede in testa tra gli acquirenti il Regno Unito, seguito nell’ordine da Italia, Germania, Francia e Olanda.

Non è facile risalire alle marche che offrono il prodotto frutto del racket confezionato nelle scatolette del tonno e delle sardine, dei calamari, del pesce azzurro e dei gamberi prive del luogo di provenienza. Ma in un dettagliato rapporto, Greenpeace fa il nome di tre grandi aziende mondiali del tonno con l’80 per cento del mercato Usa – Chicken of the Sea, Bumble Bee e Starkist – che hanno “tratto direttamente – scrive – profitto dalla violazione di entrambi i principi etici del commercio sostenibile e dei diritti umani”. Il loro scatolame è sugli scaffali di giganti della distribuzione come Kroger, Walmart, Carrefour, Costco, Tesco, e tra le marche figurano Fancy Feast, Meow Mix e Iams.

La Thai Union ha annunciato la fine dei rapporti con uno dei grandi fornitori denunciati dal dossier dell’AP, ammettendo di fatto che i racconti di numerose vittime come Phan non erano inventati. Lo stesso ha fatto la multinazionale Nestlè citando a sua volta i risultati delle inchieste giornalistiche.

Ma il pescatore birmano, partito tre anni fa da un villaggio della regione di Pago, è ancora detenuto innocente nel centro di Nonthaburi. A casa lo aspetta un figlio nato dopo la sua partenza. “Per lui sono diventato schiavo – ci dice – e non so nemmeno com’è fatto”.

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