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5S e Lega le sparano grosse, si ricompattano e affermano: “Gli eurocrati ci temono”. Ma intanto l’Europa ci bacchetta e ad essere preoccupata dalla vulnerabilità di chi si appresta a governare è anche Wall Street. “Il credito è finito, ora l’Europa chiede ai populisti di meritarsi la fiducia” scrive Stefano Stefanini nell’editoriale che vi riportiamo a seguire.
Il credito è finito, l’Europa chiede ai populisti di meritarsi la fiducia
La fiducia si conquista nelle capitali e sui mercati, non fra gli iscritti, nei gazebo o online. Il nuovo governo non se la caverà trovando una figura rispettabile e competente di Presidente del Consiglio, se programma e politica non saranno altrettanto rispettabili e competenti.
Volente o nolente, l’Italia sta per diventare il primo banco di prova di un governo populista. Cinque Stelle e Lega respingono l’etichetta. Resta il fatto che entrambi confluiscono, per vicinanza psicologica ancor più che politica, in un’internazionale populista di movimenti e pulsioni. Vi rientrano Brexit e Donald Trump; non a caso entrambi riscuotono simpatie nell’inedita coalizione italiana, specie nella Lega.
Nell’Ue ci sono già governi che cavalcano istanze populiste di destra (in Polonia e in Ungheria) e di sinistra (Grecia). Ora tocca all’Italia. La nostra vicenda è seguita all’estero con ben più palpabile e comprensibile nervosismo: per peso economico, politico e strategico, l’Italia è un Paese chiave in Europa, nella Nato, nel Mediterraneo. L’economia ha ricominciato a tirare più di quanto non dicano le statistiche sul Pil. Ripiegati in un’infinita autocommiserazione ce ne accorgiamo poco, ma se ne accorgono gli investitori ed operatori stranieri, americani, israeliani, asiatici.
L’Unione Europea si prepara un vertice cruciale: il Consiglio Europeo del 28-29 giugno. Sul tavolo ci sono il nuovo bilancio multi-annuale (Mff), passaggi chiave per Brexit, il rinnovo delle sanzioni alla Russia, forse la necessità di rispondere ai dazi americani, ma soprattutto il tentativo di rilancio del progetto europeo su impulso franco-tedesco. Emmanuel Macron e Angela Merkel sono lungi dalla perfetta sincronia; procedono a tastoni, ma non c’è dubbio sulla loro volontà di far ripartire la locomotiva. Non sanno se l’Italia sarà a bordo, se vorrà essere co-pilota o gregario; o se invece devono prepararsi a un’opposizione del terzo Paese dell’Ue. La differenza è enorme, non solo per Roma, dentro o fuori. Dopo aver perso l’Uk, con l’Italia a mezzo servizio, l’Ue diventerebbe un’Europa a metà.
All’indomani del voto l’Europa e i mercati ci hanno dato il beneficio del dubbio. La tenuta del sistema e delle Istituzioni nell’apparente instabilità è una costante della politica italiana. Pochi, fuori dai confini, si sono accorti del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica; perché emozionarsi per la nascita della Terza? A una condizione però: a Roma i governi cambiano, ma il rispetto delle regole sottoscritte, dell’aritmetica dei bilanci, dei valori comuni resta.
Di qui il fondo di fiducia di cui abbiamo beneficiato per due mesi abbondanti sui mercati finanziari e nella stampa internazionale; ne hanno beneficiato anche Luigi Di Maio e Matteo Salvini. Nessuno ha messo ostacoli nella loro marcia di avvicinamento a Palazzo Chigi. Alla fine l’Italia ce la farà: «Pourtant elle tourne» (“Eppur si muove”) come titolava una copertina dell’Express negli anni di piombo.
Se tutto questo viene meno, la convinzione s’incrina. E’ quanto successo ieri. Fin qui trattenute, nascoste, ignorate, le ansie sono venute allo scoperto. Nelle dichiarazioni Ue dei Commissari Avramopoulos e del Vice Presidente Katainen (un greco e un finlandese: non prendiamocela con una congiura franco-tedesca), negli editoriali internazionali.
Se Matteo Salvini vuole governare bene vi deve leggere un richiamo alle responsabilità che lo attendono. E’ libero di denunciarle come interferenze se invece vuol far (già) campagna elettorale: non esattamente quello che gli chiedono gli italiani.
STEFANO STEFANINI/lastampa
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