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Castellammare di Stabia

L’EPOPEA DEGLI ALPINI A NIKOLAJEWKA

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tremati da una lunga marcia nella neve gli Alpini della Tridentina concludono, con una vittoria in ritirata, la campagna di Russia.

Nel novembre 1942 l’Armata italo-tedesca in Africa Settentrionale, dopo una difesa ad oltranza, cede alle truppe del Commonwealth ad El Alamein. Si consuma così, nel deserto egiziano, la prima grande sconfitta degli eserciti dell’Asse, la prima grande svolta per le sorti della guerra.
Mentre in dicembre l’Armata dell’Africa continua il ripiegamento verso la Tripolitania, inizia un’altra pagina dolorosa, ma non meno gloriosa, per il nostro Esercito nello scacchiere più a nord, in terra di Russia. Se El Alamein richiama alla mente la Divisione Folgore, Nikolajewka, nella steppa russa, richiama l’epopea della Divisione Tridentina e del Corpo d’Armata Alpino. In Africa si combatte a 40-45 gradi sotto un sole cocente, in Russia a 40-45 gradi sotto zero nelle tormente di neve. Su entrambi i fronti viene esaltato il coraggio e l’ardimento del soldato italiano suscitando l’ammirazione di nemici ed alleati.
Nikolajewka, pur rappresentando l’epopea degli Alpini, è, comunque, la conclusione amara della sconfitta in Russia. La vittoria del Commonwealth in Africa porterà gli Alleati a Roma, la svolta in Russia porterà i Sovietici a Berlino ed alla conclusione del conflitto.
In Russia il contingente italiano è in linea dal luglio 1941. Il XXXV Corpo d’Armata (CSIR: Corpo di spedizione italiano in Russia) con le Divisioni di Fanteria Pasubio e Torino, la Divisione motorizzata Celere e la Legione Camicie Nere Tagliamento, nel settembre ‘42 sarà assorbito dall’8^ Armata (ARMIR: Armata italiana in Russia) formata dal II Corpo d’Armata (Divisioni di Fanteria Sforzesca, Ravenna e Cosseria) e il Corpo d’Armata Alpino (Divisioni Julia, Cuneense e Tridentina). Per i compiti territoriali la Divisione Vicenza, costituita da reclute e personale molto anziano.
Dimostrando un acume tattico oltre ogni immaginazione, il Corpo Alpino viene impiegato, come Fanteria di linea, nella sconfinata pianura russa, sulla riva del Don. A nulla vale la diversità dell’addestramento della guerra in montagna da quella campale.
L’attacco in forze da parte sovietica inizia l’11 dicembre ‘42 e la prima delle truppe alpine ad entrare in linea è la solita Julia chiamata d’urgenza a tamponare, il 17, una falla apertasi nel settore della Cosseria.
Infatti, mancano riserve perché il genio militare di Hitler, ex caporale dell’esercito bavarese, ha inviato tutte le forze disponibili per lo sforzo, che risulterà vano, di sfondare a Stalingrado (l’attuale Volgograd).
Inizia un ripiegamento di molte grandi Unità dal fronte: i Sovietici sfondano nel settore dell’Armata romena a sud dello schieramento alpino e, successivamente, in quello dell’Armata ungherese a nord. Il Corpo Alpino resta sulle sue posizioni nonostante il concreto pericolo di accerchiamento. La sola, mitica Julia, coinvolta ormai nel pieno della battaglia, non arretra. I suoi Battaglioni L’Aquila, Vicenza, Val Cismon, Tolmezzo, Gemona e Cividale (costituiti in prevalenza da Friulani e Abruzzesi) ripetono le gesta già note di Albania e Grecia: è un susseguirsi di attacchi e contrattacchi, di quote perse e riconquistate.
Inizia così l’epopea degli Alpini in terra di Russia. I Tedeschi, sempre avari di riconoscimenti per gli alleati, chiameranno la Julia “Divisione miracolo” e la citeranno nel bollettino di guerra del 29 dicembre.
Solo quando il 15 gennaio ‘43, a circa 100 km a sud, una colonna di carri sovietici entra a Rossosch, sede del Comando del Corpo Alpino, attaccando a cannonate la sede del Comando, si capisce finalmente l’esigenza strategica di arretrare: i Tedeschi, che hanno la direzione operativa del Settore, non si sono preoccupati del pericolo che corrono i nostri Reparti. La Julia, la solita Julia, resta a contrastare l’avanzata sovietica per consentire anche la ritirata tedesca dal Caucaso. Alcuni reparti minori restano, sacrificandosi, sulle posizioni per mascherare la ritirata. Epica la tenuta del quadrivio di Seleny Jar da parte del Battaglione Tolmezzo che scrive una delle più belle pagine della storia militare italiana.
Ormai la ritirata, a piedi e con una temperatura fra i 30 e i 40 sotto zero, per tutti gli altri reparti è una rotta: militari sbandati di varie nazionalità, provenienti da più parti e settori del fronte, si riversano sulle strade dopo aver abbandonato, in alcuni casi, anche le armi: unico obiettivo è la salvezza e così una massa disorganica si mette sotto la protezione del Corpo Alpino, rimasto compatto, intralciandone anche i movimenti. Spesso i reparti combattenti, per aprirsi la strada, dovranno ricorrere alle maniere forti.
Intanto, dopo la perdita anche dell’intero autoparco, le truppe alpine devono rinunziare anche al trasporto di artiglieria pesante. Le slitte, trainate da muli e cavalli, servono per i feriti, per i molti congelati e le munizioni. I collegamenti radio sono carenti per cui le colonne formatesi non si sa dove sono e dove vanno. Le direttrici di marcia sono due: su una si avvia la Tridentina alla quale si è aggregata metà della Divisione Vicenza, sull’altra la Cuneense, con l’altra metà. La Julia è sempre in retroguardia con compiti di copertura. L’ordine di ripiegamento prevede di raggiungere Valujiki, importante sede logistica tedesca.
Il problema è se all’arrivo non sarà già stata occupata dai Sovietici come in effetti sarà.
Per i Reparti Alpini combattenti, sempre organicamente inquadrati, disciplinati ed efficienti, la ritirata assume le caratteristiche di quella che sarà definita “avanzata all’indietro”. Ritirata, infatti, è sganciamento ed arretramento su altre posizioni col nemico alle spalle. Qui invece si presenta frequente la necessità di sfondare linee nemiche che si frappongono sul percorso di marcia: è quindi una vera e propria avanzata. Per ragioni di mimetizzazione le colonne muovono prevalentemente di notte e, quando possono, si adattano nelle isbe, casette russe fatte di legno e paglia che, al loro apparire, determinano la corsa sfrenata della massa di sbandati privi di ogni disciplina. Solo raramente una “cicogna” tedesca, sfidando i caccia sovietici, dà indicazioni e lancia qualche messaggio e talvolta vengono paracadutati rifornimenti. C’è anche qualche caso si depistaggio attuato evidentemente da qualche fuoruscito italiano rifugiato in Russia: un falso tenente parlerà in perfetto dialetto milanese per portare in un agguato il battaglione alpino Dronero, della Divisione Cuneense, a Novo Postojalovka. Solo approfittando della notte il battaglione riuscirà a superare l’ostacolo e continuare la marcia verso la salvezza.
Ogni giorno è caratterizzato da combattimenti per superare le linee nemiche che operano con manovra a tenaglia. I più cruenti ad Opyt, Postojalyi, Skororyb, Seljakino, Novo Postojalowka, Novo Charkovka, Nova Dimitrovka, Lessnitschanski, Ljmarevka, Varvarovka, Ossatschij. Degno di menzione un episodio presso Popovka il 19 gennaio: il serg. magg. Candeago, della Julia, sfuggito ad un attacco nemico, torna indietro per recuperare dall’auto del Comando, immobilizzata, la bandiera del 3° reggimento artiglieria alpina perché non cada come trofeo in mano nemica. Tanti sono comunque gli episodi di eroismo, solidarietà e sacrificio per salvare gli altri, per consentire l’uscita dalla grande sacca.
La battaglia finale si combatte il 26 gennaio 1944 a Nikolajewka: sarà la pagina più sublime dell’intera campagna di Russia. La colonna principale, costituita dalla Tridentina, deviando dall’itinerario prestabilito, punta su Nikolajewka. L’altra colonna, con la Cuneense ed un reggimento della Vicenza, proseguirà invece sull’itinerario prestabilito, entrando nella trappola di Valujki.
A Nikolajewka si combatte per l’intera giornata. La Tridentina è pressoché compatta. Si trascina, come le altre colonne, una massa di sbandati di varie nazionalità oltre a gruppi disorganici anche delle altre Divisioni Alpine. La sera del 25 si ferma fra i villaggi di Arnautowo, Nikitowka e Terinkina. Giungono anche i resti del Battaglione Morbegno (Tridentina) che il 23 ha sostenuto un sanguinoso scontro a Varvarovka riuscendo a sottrarsi al completo annientamento. Per il mattino successivo è predisposto l’attacco ma durante la notte i reparti di Arnautowo sono attaccati da forze sovietiche. Sono circa 600 Alpini (la 253^, 254^ e 112^ del Val Chiese, la 33^ batteria del Gruppo Bergamo ed un plotone del XXX Battaglione Genio Alpino): sanno che Arnautowo è un caposaldo fondamentale per la salvaguardia del grosso della colonna. Non ci sarebbe stata la meravigliosa pagina di Nikolajewka senza il sacrificio di quelli di Arnautowo. Eppure nessuno porterà loro aiuto: se la dovranno sbrigare da soli e parteciperanno successivamente anche allo stesso sfondamento a Nikolajewka.
Il paese è in fondo ad un costone e bisognerà percorrere allo scoperto almeno due chilometri per scendere fino al terrapieno della ferrovia, alle porte del paese. Le macchie scure dei cappotti grioverdi sulla neve rappresentano un facile bersaglio per i difensori. Gli Alpini sono circa 800 ed appartengono ai Battaglioni Verona, Val Chiese e Vestone ed a pochi genieri. L’appoggio di armi pesanti è rappresentato da due semoventi e dalle batterie lanciarazzi tedesche e da sei cannoncini di calibro modesto.
Sono sette ore di battaglia intensa e più volte gli Alpini stanno per cedere alla preponderante massa di fuoco nemico. Gli episodi di valore sono tanti e per lo più rimasti sconosciuti. Più volte i miti Alpini devono ricorrere all’assalto con bombe a mano o a feroci corpo a corpo con ricorso alla baionetta. Nel momento in cui tutto sta per crollare, i reduci di Arnautowo, si presentano per dare una mano a coloro che sono alla periferia del paese e non riescono a compiere il salto finale. Si riorganizzano i superstiti e giunge anche l’Edolo, rimasto bloccato dalla colonna degli sbandati. L’Edolo parte di slancio e prendono a sparare anche i pezzi dei corazzati tedeschi tenutisi in disparte. Confuso con gli altri, il Capo di Stato Maggiore della Tridentina, il gen. Giulio Martinat che, alpino fra gli alpini, va all’assalto sparando con un fucile raccolto a terra gridando: “Oltre il sottopassaggio c’è l’Italia”. Ha iniziato la carriera nell’Edolo e col battaglione della sua gioventù ritrova lo slancio dei vent’anni. Cadrà, colpito mortalmente, nel Reparto che lo aveva visto “nascere” Alpino. Sarà decorato di M.O. al V.M.
Intorno alle 15,30 la situazione conti nua ad essere incerta e il gen. Reverberi, comandante della Tridentina, è preoccupato perché col buio della sera non sarebbe più possibile prendere la città. Ha uno scatto d’impeto: sale su un blindato tedesco e, sporgendosi dalla torretta, indicando la direzione col braccio alzato, grida “avanti Tridentina” alla maniera degli antichi condottieri. Al seguito del generale un’enorme massa di soldati di ogni grado e appartenenza si catapulta verso il vivo della battaglia. È la scintilla che accende gli animi anche di quanti assistono dall’alto del costone alla carneficina che si sta compiendo alle porte di Nikolajewka. Superstiti della Cuneense, della Julia, del battaglione sciatori Monte Cervino, Fanti della Vicenza, Cavalleggeri del Savoia e Lancieri del Novara, ormai appiedati, gli Artiglieri del reggimento ippotrainato Voloire, Genieri, Carabinieri, tutti ormai non più appartenenti a reparti organici, partono lungo il costone e chi non ha le armi si ferma a raccogliere quelle dei caduti. Si vedrà persino un ufficiale alpino del Gemona montato su un cavallo gridare “avanti Gemona” infilarsi nel vivo della battaglia. I Sovietici sono messi in fuga. La battaglia di Nikolajewka è vinta, prima dal sacrificio dei reparti organici, e poi dall’impeto tumultuoso di gente che ha capito che sfondare significa aprire l’ultima porta alla via della speranza, della salvezza. Non è certo una battaglia da studiare nelle tecniche di strategia perché è la battaglia della disperazione, dell’impeto “garibaldino” ma è, certamente, una grande vittoria. È la vittoria della Tridentina e di tutto il Corpo d’Armata Alpino perché Nikolajewka è la conclusione di quell’ avanzata all’indietro che non può prescindere, però, dai sacrifici compiuti dalla Julia e dalla Cuneense sia nei compiti di copertura sia nel corso della lunga marcia. Senza le altre due Divisioni Alpine, la Tridentina non sarebbe arrivata a Nikolajewka pressoché compatta ed integra.
La colonna, dopo una marcia di 400 km circa, aprendosi la strada tra mille insidie e continui combattimenti, è salva. I resti dell’Armata saranno rimpatriati fra il 6 e il 15 marzo formando 17 convogli mentre otto mesi prima ce n’erano voluti 200! I morti, dall’estate del ’41 all’inverno del ’43, saranno oltre 104mila, nel solo mese e mezzo di ritirata 29mila. Le perdite dei 57mila del Corpo Alpino sono particolarmente gravose: 13.500 della Cuneense, 9.800 della Julia, 7.750 della Tridentina oltre a 3.200 dei Comandi e servizi del Quartier Generale. La Divisione Vicenza, destinata a compiti territoriali ed equipaggiata in modo approssimativo, chiamata ironicamente la Divisione Brambilla, pagherà un tributo di sangue di 9.000 uomini ma, alla bisogna, seppe combattere e sacrificarsi. Con gli Alpini vanno ricordati i circa 500 Granatieri tedeschi che con 4 semoventi e 3 batterie lanciarazzi hanno consentito una massa di fuoco che, se pur limitata, si rivelerà risolutiva in molti casi, unica contrapposizione ai carri armati e all’artiglieria pesante sovietica.
Gravi le carenze organizzative e logistiche: l’equipaggiamento assolutamente inefficiente, i collegamenti radio difficoltosi se non inesistenti, armamento inadeguato alle basse temperature che blocca i congegni.
Gli Alpini costretti a trasformarsi in cacciatori di carri con mine e bottiglie “Molotov” per l’inadeguatezza delle munizioni controcarro che rimbalzano sulle spesse corazze dei carri sovietici: l’effetto penetrazione dei proiettili “E/P” verrà definito, ferme restando le iniziali, “effetto pernacchia”. Il nostro vecchio fucile ’91 (6 colpi al minuto) contro i parabellum russi (75 colpi al minuto); i nostri carri da 3 tonnellate contro quelli sovietici da 38 e 50!
Certo Mussolini sbagliò i conti e di molto sul numero dei morti da gettare sul tavolo della pace, e non comprese che la guerra moderna era ben altra cosa che affrontarla con le otto milioni di baionette da lui propagandate, con i fucili modello ‘91 e con soldati equipaggiati ancora con le fasce mollettiere nella neve. Eppure si affrettò a dichiarare guerra e non certo per difendere il Paese! Da qui la responsabilità morale, politica e militare di chi, pur conoscendo le forti carenze delle nostre Forze Armate, l’impreparazione e le difficoltà logistiche, volle un’avventura senza ritorno gettando il Paese nella disperazione e nella tragedia. Si accorse tardi che l’esercito sovietico era ben altra cosa dell’esercito etiopico!
Gli Alpini in Russia, unico Corpo rimasto imbattuto, dimostreranno forte resistenza ai disagi ed alto senso del dovere. Meritano riconoscenza, rispetto, ammirazione e gratitudine. Con loro vanno ricordate tutte le Unità dell’8^ Armata, anch’esse votate al sacrificio, operando con disciplina ed abnegazione.
Il modo migliore per ricordare quegli Alpini, quanti caddero nell’adempimento del dovere, nei campi di prigionia, negli ospedali, e quanti, baciati dalla fortuna, ritornarono, è ripensarli coi nomi dei loro Battaglioni: Tolmezzo, Gemona, Cividale, Vicenza, L’Aquila e Val Cismon e Gruppi Artiglieria Conegliano, Udine e Val Piave (Julia); Ceva, Pieve di Teco, Mondovì, Borgo San Dalmazzo, Dronero e Saluzzo e Gruppi Artiglieria Pinerolo, Val Po e Mondovì (Cuneense); Morbegno, Tirano, Edolo, Vestone, Val Chiese e Verona e Gruppi Artiglieria Bergamo, Vicenza e Val Camonica (Tridentina) e Battaglione sciatori Monte Cervino. Per la battaglia risolutiva di Nikolajewka una citazione particolare va però all’Edolo che dimostrò un coraggio ed un’efficienza operativa non comuni.
A fine gennaio 1944, con la resa della 6^ Armata tedesca a Stalingrado, c’è la definitiva svolta della guerra anche nello scacchiere orientale.
Ai raduni nazionali degli Alpini in congedo, svolti sempre all’insegna dell’allegria e dell’amicizia, il corteo è preceduto da uno striscione sul quale è scritto “Ci precedono … penne mozze” (con l’indicazione della cifra): è l’ideale presenza degli Alpini caduti per la Patria. È un atto di alta sensibilità e di rispetto, di solidarietà per il commilitone caduto, disperso, che forse non è stato possibile salvare o che ha consentito agli altri di salvarsi. E in terra di Russia gli episodi sono tanti così come già in Albania, in Grecia, e ancor prima sull’Adamello, sul Grappa, ovunque. Le penne mozze sono presenti, davanti a tutti, e dopo aver idealmente partecipato ritornano, sereni ed orgogliosi, a riposare nel Paradiso degli Eroi, sempre presenti nel cuore di tutti.

Giuseppe Vollono

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