Se i giocattoli potessero parlare, il protagonista di questa storia di cronaca forse la racconterebbe così.
Sono un piccolo monopattino e vengo dalla casa di un bambino torinese che si era stancato di me, tanto da gettarmi in un cassonetto. Sono stato raccolto pieno di lividi da mani guantate e parcheggiato in un magazzino. Lì una spazzina mi ha sollevato per il manubrio e consegnato a una sua collega con tre figli e un solo stipendio, Aicha Ounnadi. Ma costei non ha fatto in tempo ad appoggiarmi sul sedile di un’auto che è successo il finimondo. Altre mani guantate mi hanno ricacciato dentro il magazzino e intanto Aicha veniva licenziata in tronco. Per avere preso me. Il rifiuto di un bambino. A suo dire, non le avevano spiegato che io ero un rifiuto. Pensava fossi un regalo. E ora rivuole il posto perché sono tre mesi che ai figli, a cui sperava di regalare me, non riesce più a garantire neanche una cena decente. Ora, io sono solo un monopattino, ma se qui si licenzia la gente per il furto di un rifiuto, posso immaginarmi come la mannaia della legge scatterà implacabile verso le bande di strada che rovistano nei cassonetti o verso i facchini che aprono le valigie negli aeroporti. E, per salire la scala del potere e quindi delle responsabilità, verso i politici che truccano gli appalti e i professori che truccano i concorsi, riducendo le persone oneste a rifiuti. Saranno tutti ai lavori forzati, come minimo. Un Paese simile mette paura. Ci sarebbe qualche polpaccio in fuga disposto a pattinare via con me?
P
unti Chiave Articolo
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