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L’atrocità di Palermo (Gianni Riotta)

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’Italia è scossa dalla fine tremenda di un clochard a Palermo, bruciato vivo per una gelosia. L’editorialista de La Stampa, Gianni Riotta, è tornato nella sua città per scoprire cosa sia avvenuto, in cerca di un esame di coscienza collettivo.

Una tragedia figlia della povertà. Palermo scopre il suo volto nascosto

Viaggio nella città dove un senzatetto è stato arso vivo da un rivale in amore. Prima l’accusa ai clan e ai “giovani bene”, poi un esame di coscienza collettivo

PALERMO – «Da noi queste cose non succedevano mai. Al Nord, magari, sì ma da noi mai». «Veramente, da noi, scioglievano i bambini nei barili di acido per ricattare le famiglie, altro che bruciare i senzatetto in strada con la benzina».

«E qui lei sbaglia, signor mio, forse manca da troppi anni da Palermo. Quelli che nel 1986 sparano per vendetta al piccolo Claudio Domino di 11 anni, erano mafiosi. Ma i palermitani normali si curano degli altri, come magari non accade nelle grandi città settentrionali».

La conversazione si tiene nel salone di un barbiere a Palermo, un locale dove per tanti anni gli impiegati della Regione Siciliana hanno fatto la sfumatura alta per andare in ufficio e che ora taglia creste irochesi ai loro nipoti. La morte di Marcello Cimino, senza casa di 45 anni, inondato di benzina e arso vivo da un compagno di strada e coetaneo, Giuseppe Pecoraro, apre in città un esame di coscienza che per tutto il weekend, radio, tv, web, giornali, parrocchie, feste familiari, alla predica dell’arcivescovo Lorefice, si chiede perché?

I ragazzi «da fuori»

Da Don Ciotti, qui amato per le sue cooperative di Libera, si punta il dito sul degrado, la povertà di chi resta solo, e dapprima la reazione sembra quella contro la banda dei ricchi balordi che, per gioco, manda sul rogo un disgraziato, come a volte è accaduto «al Nord». In coda nella pasticceria nota, dietro la villa dove viveva lo scrittore Leonardo Sciascia sabato mattina si diceva «Sono ragazzi di certo», «Venuti da fuori», «Hai presente quelli del giro della cocaina bene? Quando pippano non hanno testa, l’hanno fatto per ridere, magari ubriachi». E nel pomeriggio i ragazzi che da questa città millenaria che gli Arabi chiamavano «felice», provano a trasformare l’infelicità in protesta, con una fiaccolata. Sul web il cinismo corrosivo li investe subito, «E questa è Palermo, un barbone muore bruciato e quelli fanno la fiaccolata di protesta, e contro di chi per cortesia?».

La protesta è in fondo un miraggio, ci fosse un colpevole, la povertà, la miseria, l’odio tra depravati viziati, quelli che hanno abbandonato tennis, vela e macchine sportive da Targa Florio dei loro padri per sprecare la vita a bordo piscina con la coca, forse Palermo si sveglierebbe domenica mattina – sotto una luce azzurra ripulita dal vento sotto il Monte Pellegrino amato da Goethe – meno dispeptica. Ma intanto la verità è emersa, dalle indagini di polizia e magistratura, con l’ausilio delle telecamere ubique. Niente odio, niente razzismo, niente gioventù bruciata e dramma dell’emarginazione. Ogni fretta sociologica, ogni filippica contro quella che il vecchio sociologo Paul Goodman chiamava «Gioventù assurda», dai comizi, dai pulpiti, dalle colonne sussiegose dei giornali è frettolosa. Cimino è stato ucciso da un altro povero come lui, Pecoraro faceva il benzinaio precario, vestito con la maglietta di un gigante petrolifero, per questo ha potuto riempire il suo secchio bianco, «dottore di solito ci mettiamo le olive in salamoia», di benzina e sacrificare il povero Cimino. Un gesto così poco preparato che anche a Pecoraro prendono fuoco pantaloni e barba, e spegnendo le fiamme si ustiona le mani, prova che lo condurrà alla confessione.

Dramma del cuore

Dietro il rogo un dramma d’amore. I due uomini mangiavano spesso alla mensa che i padri Cappuccini hanno allestito per i poveri, «legga il giornale, lo legga: a Sant’Egidio dicono che solo da noi i senza tetto sono 2887, solo a Roma e a Milano ce n’è di più. Ma Cimino non era un lavavetri della Circonvallazione arrivato con gli sbarchi, capisce? Qua non siamo a Fuocammare, dottore. Questo era un idraulico, aveva la sua casa a Villaggio Santa Rosalia, ma le ha viste le sorelle e le figlie? Come sono vestite? È gente perbene. Poi perdi il posto e finiscono in mezzo a una strada mi spiego o mi rendo infelice? Altri tempi e il benzinaio campava sereno e l’idraulico aveva la capanna per fare i bagni alla spiaggia di Mondello ogni estate».

Cimino è morto sotto i portici del chiostro dei padri Cappuccini, che con pazienza, come gli uomini di Biagio Conte, Missione di Speranza, Boccone del Povero, Sant’Egidio, Don Calabria, Caritas, si ammazzano di fatica e carità per sfamare ogni giorni i nuovi poveri.

Un passo

Un vecchio sociologo in pensione, di quelli che animavano il ’68 a Palermo, uno dei primi atenei della rivolta giovanile con Trento, fa i conti amaro «Spiegaglielo agli economisti della decrescita infelice, a quelli dei festival che consumiamo meno e stiamo meglio. Qua al Sud il passaggio dal certo medio a dormire sotto un ponte, come in America, è grande un passo solo ok?».

Quel passo Cimino e Pecoraro l’hanno fatto, e una fiamma, in gelosia per una donna compagna di povertà che pare si contendessero, li ha portati alla tragedia. Il falò umano dietro le Catacombe dei Cappuccini che Thomas Mann rende metafora di paura e dietro la tomba di Lampedusa, il Gattopardo. Qui la mafia cominciò nel 1971 la grande mattanza uccidendo il procuratore Scaglione, qui il caos del XXI semina morti «contro cui a che serve predicare e protestare dottore, più diventiamo poveri più la corda pazza dei siciliani che in Pirandello pure faceva ridere ammazza. Capisce».

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