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La storia dei manicomi italiani: se non erano sani non li volevano

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span id="m_5679596245969443004docs-internal-guid-5266182b-ab56-cee4-f13e-709afb6380cf">Donne depresse o “troppo erotiche”, bambini ribelli, socialisti, mazziniani, anarchici: una volta erano tutti considerati “matti” Grazie a un progetto del Mibact vanno online due secoli di Storia dei manicomi italiani, con cartelle cliniche e diagnosi sorprendenti.

Se non erano sani non li volevano

Vanno online due secoli di storia dei manicomi italiani, con cartelle cliniche e diagnosi sorprendenti

Se la Monaca di Monza fosse nata due secoli dopo, probabilmente sarebbe finita in un ospedale psichiatrico con una diagnosi di «mal d’amore». È stato presentato nel complesso di Santo Spirito in Sassia di Roma «Carte da legare. Archivi della psichiatria in Italia», il progetto del Mibact che per la prima volta archivia, organizza e rende disponibile a tutti attraverso un sito la storia dei manicomi d’Italia dai primi dell’800 agli anni 60 del secolo scorso, con tanto di cartelle cliniche, statistiche e diagnosi. «Tutta la grande storia si conserva nelle cartelle cliniche dei manicomi – spiega Micaela Procaccia, responsabile del progetto per la direzione generale degli archivi – e sono uno strumento per interpretare la società».

Le «malattie» religiose 

Il progetto documenta due secoli di emarginazione sociale, economica e culturale, di donne rinchiuse perché troppo chiacchierone o «affette» da sensualità, bambini poveri, segregati perché vivaci e irrequieti, uomini con diagnosi politiche, etichettati come «mazziniani» o «repubblicani». Dalle carte emerge lo sguardo di come «i sani» e i dottori guardavano ai «matti» (spesso presunti).

Donne segregate perché «troppo erotiche», petulanti, impertinenti e ribelli, o alle quali è stata diagnosticata la «malattia» della depressione post partum. «Ciò che emerge è che la ribellione viene punita con una diagnosi di malattia mentale – continua Procaccia -, dove, ad esempio, il “mal d’amore” coincide con la depressione per essere state lasciate. I manicomi sono stati anche strumento di contenimento, di controllo sociale, e ci finiscono spesso le categorie di persone che danno fastidio». Una cartella clinica racconta di una fanciulla di buona società campana che fu rinchiusa per comportamenti devianti non consoni a una brava ragazza della sua epoca. C’è pure la storia di Violet Gibson, la donna che attentò alla vita di Benito Mussolini e che fu internata in un manicomio in Gran Bretagna: era considerata matta anche perché non aveva il desiderio di tirar su famiglia. I bambini rinchiusi, perché ribelli o scatenati, sono poveri, ai margini della società, e la segregazione nei manicomi li ha progressivamente allontanati dalla realtà.

«Socialisti», «mazziniani», «anarchici» e «repubblicani» sono alcune tra le diagnosi con motivazioni politiche che giustificavano il ricovero di personaggi scomodi. Uomini vagabondi, o reputati improduttivi, finivano nei manicomi e negli ospedali psichiatrici. C’è anche la storia del commissario di pubblica sicurezza Giuseppe Dosi, noto alle cronache per aver smontato le prove che incastravano ingiustamente Gino Girolimoni, accusato di stupri e omicidi: venne internato nel manicomio criminale di Regina Coeli e poi fu riabilitato. Tra le diagnosi «religiose» spunta una donna, «la pazza vestita da frate», mentre la storia delle strutture narra deportazioni di ebrei dal manicomio di Venezia, e di altri che vi si nascondevano per sfuggire le razzie.

I traumi da trincea 

«Tra il ’18 e il ’19 negli ospedali psichiatrici, in particolare nel Veneto, c’è un innalzamento di ricoveri di soldati che hanno avuto il trauma da trincea – spiega Procaccia -. E lo stress post traumatico viene scambiato per malattia mentale». Il picco dei ricoveri che si registra a partire dalla fine della Prima guerra mondiale per traumi da trincea è dato dalle reazioni scomposte dei «matti» a forti rumori, sintomo, stando alle cartelle cliniche, di malattia mentale.

Basta registrarsi al sito per consultare le cartelle cliniche, da cui sono stati rimossi i nomi. Un software all’avanguardia, studiato da «Memoria Archivi», permette di avere accesso a tutte le informazioni, contenuti multimediali, immagini, manoscritti, statistiche e alla mappatura dei manicomi in Italia. «Abbiamo iniziato questo cammino nel ’99, e oggi è possibile condividere uno straordinario patrimonio – conclude Procaccia -. Abbiamo slegato i “matti” e legato le carte».

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vivicentro/La storia dei manicomi italiani: se non erano sani non li volevano
lastampa/Se non erano sani non li volevano ARIELA PIATTELLI

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