“I russi hanno votato con scarsa diligenza più per stanca disciplina che per convinzione” e “il voto di ieri esprime semplicemente attaccamento alla stabilità”, scrive il nostro editorialista Stefano Stefanini che parla di una “ottima estate” per Putin.
Il dogma della stabilità alla russa
S
ono durati poco i tempi nei quali il mondo attendeva con apprensione l’esito del voto in Russia. Ieri, la curiosità era minima. Ci si domandava solo come Vladimir Putin sarebbe uscito dalle elezioni. Stando agli exit poll, ne esce esattamente come prima.
In pieno controllo della politica russa. Il che gli basta per guardare con distacco ai problemi che affliggono le controparti occidentali.
I russi hanno votato con scarsa diligenza (a malapena 40% di affluenza alle urne) più per stanca disciplina che per convinzione. Disciplinatamente, hanno ridato a Russia Unita una netta maggioranza; qualche seggio perso non fa differenza. In una Duma docile le opposizioni comunista e liberaldemocratica fanno salvo l’esercizio di democrazia, ma non incidono minimamente sui rapporti di potere.
Il voto di ieri esprime semplicemente attaccamento alla stabilità. Putin ha saputo abilmente cavalcarla, facendosene identificare come il garante. E’ questo che gli assicura un consenso stratosferico pur dovendo chiedere ai russi di tirare la cinghia, a causa del crollo dei prezzi di petrolio e gas e delle sanzioni occidentali. La pazienza non durerà in eterno, ma intanto il Presidente incassa, senza molto sforzo, un nuovo Parlamento sempre ligio al potere che conta – il Cremlino. Può così guardare con tranquillità alle elezioni presidenziali, previste nel marzo del 2018; non ha detto che si ripresenterà ma tutti, in Russia e fuori, se lo aspettano.
Lo stridente contrasto con l’Europa e con l’Occidente non sta solo nella capacità russa di produrre una solida maggioranza parlamentare, che in Europa manca praticamente dappertutto. La Russia ci arriva grazie alla mobilitazione del governo, al controllo dell’informazione e alla coalizione di forze, come la Chiesa ortodossa, coagulate intorno all’orgoglio nazionale. Sono tratti della «democrazia sovrana» di Putin incompatibili con le nostre democrazie. Ma colpisce soprattutto l’abisso che separa il desiderio russo di stabilità dalle ansiose e profonde insoddisfazioni occidentali. L’uno si traduce nell’acritica conferma del leader e del partito al potere; le seconde nella ribollente rivolta populista contro il funzionamento degli interi sistemi politici in Europa e negli Stati Uniti e contro le figure e le istituzioni, in particolare dell’Ue, che vi s’identificano.
Putin ha avuto un’ottima estate. Si è riconciliato con Erdogan. Si è reso indispensabile in Siria, al punto di contemplare azioni militari congiunte con gli americani contro lsis. Il referendum britannico e l’insipienza politica di Bruxelles gli hanno servito Brexit su un piatto d’argento. Tedeschi e francesi hanno arricchito il piatto con il fallimento dichiarato di Ttip. Putin non è antieuropeo, ma preferisce gli europei divisi che non uniti – si tratta meglio. Del pari, non è detto che aneli ad avere un presidente Trump con il dito sul bottone nucleare, ma non gli dispiace che una campagna elettorale americana in cui entrambi i candidati hanno alti indici d’impopolarità laceri gli Usa e indebolisca il futuro Presidente, chiunque sia, prima ancora d’entrare alla Casa Bianca.
Stamattina, dalle finestre del Cremlino, Vladimir Putin vede un’Europa divisa e un’America inquieta. Oltreoceano le rudimentali bombe di Manhattan e il selvaggio accoltellamento in Minnesota ravvivano le paure di terrorismo domestico. Il «saremo duri» di Donald Trump sarà qualunquistico (con chi? come?) ma ha più appeal elettorale della misurata reazione di Hillary Clinton.
Con una coesione che ha sorpreso i russi, l’Ue ha dato non pochi fastidi a Mosca. Se viene meno, la Russia ha tutto da guadagnare. Orfana del Regno Unito, il resto dell’Ue era chiamato a una prova di maturità. Invece Bratislava è stato un fallimento. L’Ue a 27 si è rivelata più divisa dell’Ue con Londra dentro.
A farla ripartire non basta certo lo stanco e squilibrato «motore» franco-tedesco. E’ velleitario pensare che Roma, da sola, possa correggere la rotta; Matteo Renzi non può non sapere che per convincere l’Africa a controllare la fuga immigratoria ci vuole l’intera Europa. Le spinte centrifughe verso la formazione di gruppi geografici, come Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia), i «nordici» più Germania, il Sud indebitato, rischiano di dilaniare il tessuto dell’Unione.
Vladimir Putin conosce il nerbo dell’Occidente. Europa e Stati Uniti sono in grado di superare questa fase di difficoltà, in buona parte autoinflitte. Il rapporto con la Russia continuerà ad oscillare fra partnership e competizione. Ma, guardandosi intorno all’indomani di un voto che conferma Mosca come un’isola di stabilità politica, non può che compiacersi del disordine altrui. Domani si vedrà, ma oggi si sente in una botte di ferro.
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