Ho incontrato Roberto Saviano per la prima volta a maggio del 2008, il suo libro era uscito due anni prima e da 19 mesi viveva sotto scorta. Aveva 28 anni e stava infagottato in un girocollo di lana blu, anche se a New York faceva già caldo. Era arrivato negli Stati Uniti per partecipare a un festival di letteratura. Venne invitato ad una cena in cui l’ospite d’onore era Salman Rushdie, i due non si erano mai visti e mi trovai tra loro quando cominciarono a parlare di libri pericolosi e di vite blindate. In quel suo primo viaggio americano Saviano venne messo sotto protezione dell’Fbi, l’autore di Versi Satanici invece si muoveva liberamente per Manhattan.
Rushdie gli chiese quando Gomorra aveva cominciato a dare fastidio e Saviano si mise a raccontare: “Quello che non mi hanno perdonato non è il libro ma il successo, il fatto che sia diventato un bestseller. Questo li ha disturbati e più la cosa diventa nota e più sono incazzati con me. Se il libro fosse rimasto confinato al paese, a Napoli, alla mia realtà locale, allora gli andava anche bene”.
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Anzi, i camorristi se lo regalavano tra loro, contenti che si raccontassero le loro gesta. Avevano perfino cominciato a farne delle copie taroccate da vendere per la strada e un boss aveva rimesso le mani in un capitolo riscrivendosi alcune parti che lo riguardavano. Poi però la cosa è cresciuta e questo ha iniziato a disturbarli. Perché fino ad allora non finivano mai sulla prima pagina dei giornali, neppure quando facevano massacri, e si sentivano tranquilli e riparati. Il libro ha risvegliato l’attenzione in tutta Italia e questo non mi è stato perdonato”.
Oggi Gomorra ha compiuto dieci anni, i riflettori dell’opinione pubblica e della giustizia sono tornati ad accendersi sulla camorra, che era scivolata nel disinteresse da tempo, i casalesi hanno pagato un prezzo giudiziario importante a questa notorietà e Roberto Saviano vive ancora sotto protezione. La scorta non è un merito, è una gabbia e il segnale più evidente di un Paese malato. Un Paese che ha il record dei giornalisti sotto tutela perché denunciano la criminalità organizzata (anche per questo l’Italia è messa così male nella classifica mondiale della libertà di stampa), dove si bruciano le auto ai cronisti, dove gli avvocati dei mafiosi minacciano platealmente nelle Aule dei Tribunali chi ha avuto il coraggio di raccontare. Di questo dovremmo parlare.
Invece c’è chi fa campagna elettorale, come il senatore verdiniano Vincenzo D’Anna, sostenendo che a Saviano si dovrebbe togliere la scorta e che con i soldi risparmiati si combatterebbe meglio la camorra. Se ragionassimo come il senatore potremmo replicare che anche i soldi delle nostre tasse potrebbero essere meglio spesi se non dovessero pagare il suo stipendio da parlamentare che ha già cambiato partito tre volte. Che l’accusa a Saviano sia strumentale e serva a fare campagna elettorale in zone dove la camorra controlla il territorio lo svela senza vergogna lo stesso D’Anna: “Da noi in Campania i voti ce li guadagniamo lottando, non stando zitti”. E lottare significa sostenere che Saviano è “un’icona farlocca” e che la protezione gli va tolta perché “è uno che ha copiato metà dell’unico libro che ha fatto”. Non si capisce quale sia il nesso tra le due cose, mentre è chiarissima l’intenzione di guadagnare consenso e popolarità denigrando chi denuncia la criminalità organizzata in un feudo elettorale dove la camorra prospera.
D’Anna attacca Saviano: “Toglierei la scorta, nessuno lo vuole uccidere: è un’icona farlocca”
La questione poteva finire qui, salvo che persone come D’Anna sono sempre più compagni di viaggio della maggioranza di governo, ma ieri l’ex direttore delFoglio Giuliano Ferrara non si è lasciato sfuggire la ghiotta occasione di scrivere un articolo per sposare il pensiero del senatore verdiniano e per rincarare la dose contro Saviano. Ferrara finge di fare un pezzo “pericoloso” e perciò coraggiosissimo, visto che dice di amare quel politico di razza casertana che ha l’ardire di affermare che “il libro è farlocco e la scorta farlocca”, ma la verità è che non c’è nulla di più facile in Italia che sputare controvento, dissacrare e diffamare. Prendere un’icona e farla a pezzi è la massima soddisfazione e garantisce consenso, sorrisini complici e simpatia.
Su cosa significhi dire tutto questo in Campania, sul messaggio inviato e sulle conseguenze evidenti Ferrara non se ne preoccupa, ama il gesto plateale e rumoroso, ha usato tutto il suo spazio sulla prima pagina del Foglio per ridicolizzare Saviano, e sarà felice che anche noi ce ne dobbiamo occupare. Anzi si concede anche il lusso di dire che “le minacce in Italia sono un genere su cui vivono e prosperano fior di stronzi”. Non riesco a togliermi di mente un altro politico della stessa razza “antica e nobile” di D’Anna quando disse che un professore bolognese era “un rompicoglioni” in quanto colpevole di denunciare d’essere in pericolo per avere la scorta. Purtroppo Marco Biagi venne ucciso sul portone di casa mentre scendeva dalla sua bicicletta. Ma il piacere di un certo dileggio è rimasto intatto.
I libri di Roberto Saviano si possono criticare, sezionare, smontare, ma in modo onesto e non per strizzare l’occhio ai casalesi. A me non piacciono le icone, gli eroi, le gabbie mentali e la messa all’indice del pensiero critico. Mi piacciono le persone coraggiose, quelle sì e mi piacerebbe che si ragionasse sulle conseguenze che quel libro ha avuto nell’opinione pubblica e nella vita di un ragazzo.
Saviano ormai passa più della metà del suo tempo fuori dall’Italia, proprio per camminare libero, per scegliere di entrare in un bar o di andare al cinema senza dover chiedere il permesso in anticipo. Per non avere la scorta. E spera che non sia lontano il giorno in cui non ce ne sarà più bisogno anche qui, ma questi attacchi allontanano quel giorno e rendono “La Scorta” un simbolo intoccabile.
In quel maggio di otto anni fa Salman Rushdie concluse così la sua chiacchierata: “Devi riprenderti la tua libertà. Ascoltami bene Roberto, non arriverà mai un giorno in cui un poliziotto o un giudice si prenderanno la responsabilità di dirti: è finita, sei un uomo libero, puoi andare tranquillo, uscire da solo”. Poi l’accompagnò alla macchina dell’Fbi e mentre gli chiudeva la portiera aggiunse: “Roberto abbi cura di te, sii prudente, ma riprenditi la tua vita e ricordati che la libertà è nella tua testa”. L’auto blindata dei federali partì veloce, mentre Rushdie, da solo, si mise a camminare nella notte lungo il Central Park.
Saviano ha capito quella lezione, cammina nel mondo da solo, e vorrebbe essere libero anche a casa sua. Libero dalla scorta, dai politici che scambiano voti e dai diffamatori.
vivicentro.it/editoriale – repubblica/La libertà di Saviano di MARIO CALABRESI
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