Proseguendo nei miei innesti culturali sul filo dei ricordi e della Storia per la rubrica ”PILLOLE DI STORIA”, invio oggi questo mio contributo che ho titolato: “LA FINE DELL’IMPERO E LA GUERRIGLIA ANTINGLESE” nel quale è appena accennata l’azione svolta dal ten. di Cavalleria Amedeo Guillet che ho sviluppato in altro articolo che vi invierò a breve.
Buona lettura.
D
opo un inizio folgorante le truppe italiane, isolate dalla Madrepatria, cedono dopo una strenua difesa.
A Cherù l’ultima carica di cavalleria in terra d’Africa. Nasce la guerriglia antibritannica con bande di militari italiani e di colore. Le epiche gesta di Amedeo Guillet.
È il pomeriggio del 5 maggio 1936 quando Mussolini, dal famoso balcone di piazza Venezia, annuncia al Mondo che anche l’Italia fascista ha il suo Impero: l’Etiopia, Paese strutturalmente ancora al Medio Evo, è stata conquistata e con l’Eritrea e la Somalia costituirà l’Africa Orientale Italiana (AOI). Non sa che sarà questa smania imperiale l’inizio della sua fine. Sarà questa la causa che lo spingerà ulteriormente al fatale abbraccio con la Germania nazista che garantirà le necessarie forniture superando l’embargo deliberato dalla Società delle Nazioni, l’ONU di allora.
L’AOI è completamente isolata, accerchiata da colonie inglesi (Kenia, Sudan e Somaliland) e dalla Somalia francese per cui il suo destino, in caso di guerra prolungata, è segnato: non può avere alcun aiuto dalla Madrepatria e dovrà basarsi solo sulle sue forze senza possibilità di rifornimenti e reintegri.
Il 10 giugno 1940, l’infausto giorno della dichiarazione di guerra, le Forze Armate, al comando del Viceré, il Duca d’Aosta, sono costituite da circa 290.000 uomini dei quali circa 200.000 indigeni, 300 aerei, nove fra cacciatorpediniere e torpediniere, otto sommergibili e altro naviglio leggero. L’armamento, manco a dirlo, è insufficiente ed obsoleto: molti reparti indigeni hanno ancora il fucile 70/87 ad un solo colpo; in tutto il territorio ci sono solo sei batterie antiaeree e quattro da 20 mm.- Molto scarsa la dotazione di autocarri e carri armati per lo più leggeri. Unica possibilità di sopravvivenza è la difesa fino all’esaurimento delle scorte.
La strategia per un esercito moderno, con armamento ed equipaggiamento adeguati, sarebbe la risalita del Sudan per congiungersi all’Esercito della Libia ma non solo mancano piani, soprattutto manca l’ organizzazione logistica. Nonostante tutto il 4 luglio sono conquistate Gallabat e Cassala in Sudan e Moyale in Kenia. Dal 3 al 19 agosto è occupato il Somaliland di cui non si hanno neanche carte topografiche aggiornate creando difficoltà di movimento. Le truppe inglesi, numericamente insufficienti, preferiscono, ovunque, una ritirata controllata. Si esaurisce, con queste limitate operazioni, la spinta offensiva dell’Esercito delle Colonie col risultato di un appesantimento delle linee di rifornimento e della situazione logistica.
La riorganizzazione militare britannica con l’afflusso di adeguati rinforzi e la preponderanza, specie nelle artiglierie, nei mezzi meccanizzati e nell’arma aerea, saranno la chiave di volta dell’offensiva sferrata dal Sudan e dal Kenia nel gennaio 1941. Contestualmente viene fomentata la guerriglia dei “patrioti” abissini.
È così che il 22 gennaio ’41 il Bollettino di guerra n. 228 segnala: “Necessità di carattere strategico hanno imposto al Comando l’evacuazione di Cassala”. È l’inversione di tendenza in AOI: le truppe italiane sono ormai costrette ad una continua ritirata. Il Negus Hailè Selassiè rientra nella capitale del suo Regno il 5 maggio 1941, a cinque anni esatti dall’ingresso trionfale del Maresciallo Badoglio.
Ancora una volta il carattere e l’eroismo del soldato italiano si esprimerà in azioni difensive: sull’Amba Alagi, a Cheren e a Gondar.
Cheren è la porta che apre la via verso il mare ed all’intera Eritrea. Gli Inglesi buttano nella mischia il meglio delle loro truppe e per molto tempo l’esito della battaglia sarà incerto: è un susseguirsi di attacchi e contrattacchi. Si dirà che Cheren è per gli Italiani il “Monte Grappa d’Africa”. Le truppe si battono con un’audacia fuori dal comune e si scrivono indelebili pagine di eroismo nei capisaldi del Dologorodoc e del Sanchil ad opera di Alpini, Granatieri di Savoia ed Ascari eritrei. I 35.000 uomini al comando del gen. Carnimeo che difendono la zona, sottoposti ad un pesante e costante fuoco d’artiglieria ed a furiosi attacchi aerei, dopo 56 giorni di strenua lotta sono costretti, il 26 marzo, al ripiegamento. Sul terreno restano circa 5.000 nazionali e 7.000 coloniali. È considerata la più sanguinosa battaglia in terra d’Africa.
La resistenza opposta dagli Italiani desta ammirazione negli Inglesi tanto che lo storico inglese Arthur Barker, nella sua storia sulla campagna d’Eritrea, scriverà: “Cheren costituì il supremo sforzo bellico italiano e ciò che fecero le truppe di Carnimeo non fu probabilmente mai superato nella storia militare italiana”. Con la caduta di Massaua l’8 aprile, l’Eritrea, costituita in Colonia italiana il 1° gennaio 1890, è irrimediabilmente perduta! L’avventura italiana era iniziata l’11 marzo 1870 con l’acquisto della baia di Assab siglato dall’esploratore genovese Giuseppe Sapeto seguita, il 5 febbraio 1885, dallo sbarco a Massaua delle truppe del Col. Saletta.
Il Duca Amedeo d’Aosta, lasciata Addis Abeba per risparmiare disagi alla popolazione civile, si ritira sull’Amba Alagi laddove l’eroismo del Magg. Toselli rifulse nel dicembre 1895. Ha con sé circa 7.000 uomini ed il suo obiettivo è ormai quello di impegnare il maggior numero di forze nemiche per sottrarle all’impiego su altri fronti, prima di tutto in Libia. L’area si presta alla difesa ma punti deboli sono i 17 km. di fronte, la difficoltà delle comunicazioni, l’impossibilità assoluta di rifornimenti e la mancanza d’acqua.
L’attacco britannico è sferrato nella notte fra il 3 e il 4 maggio ma le continue offensive sono ribattute con frequenti corpo a corpo. Ben presto si esauriscono viveri e munizioni mentre si fa insostenibile la situazione dei feriti. Nonostante la fiera resistenza, la mattina del 19 maggio i circa 4.000 superstiti discendono l’Amba marciando ordinatamente in armi mentre un picchetto britannico presenta le armi. Il Duca, che ha rifiutato di porsi in salvo per condividere la sorte dei suoi uomini, passa in rassegna il picchetto d’onore britannico. Gli sarà conferita la medaglia d’oro al V. M.- Il 3 marzo 1942, all’età di 43 anni, morirà in prigionia e le sue spoglie restano tuttora nel cimitero militare italiano in Kenia.- Il Bollettino di guerra n. 348 del 19 maggio riferisce: “Il presidio dell’Amba Alagi, dopo aver resistito oltre ogni limite, ridotto ormai senza viveri e senz’acqua, nella impossibilità materiale di curare i feriti, ha avuto ordine di cessare la lotta.… Il nemico, in omaggio al valore dei nostri soldati, ha loro concesso l’onore delle armi…”.
Ma il tricolore d’Italia sventola ancora in terra etiopica. A Gondar, l’antica capitale, c’è un comandante di eccezionale tempra umana e militare, il gen. Nasi. Nel 1937 ha avuto la forza di opporsi alle rappresaglie ordinate da Graziani e, in qualità di Governatore, si è guadagnato l’ammirazione della popolazione locale che lo chiama “Grande padre”. Dispone di 13 battaglioni nazionali, 15 coloniali, tre Squadroni di Cavalleria indigena ed una flotta aerea di tre velivoli! Organizza un’efficiente difesa articolata su capisaldi. Gli Inglesi, che hanno il dominio assoluto del cielo, iniziano l’attacco nell’ultima decade di maggio. Il primo caposaldo ad essere investito è quello di Celgà che resiste a tre giorni di massiccia offensiva per cui gli attaccanti sono costretti a rinunziare per evitare gravi perdite. Il caposaldo di Debra Tabor respinge innumerevoli attacchi fino alla resa per … fame e sete: il 6 luglio capitola ma i superstiti ricevono l’onore delle armi. Il caposaldo di Uolchefit rintuzza ogni attacco ed in una controffensiva è catturato Ras Burrù, capo delle bande irregolari che combattono a fianco degli Inglesi. I difensori risolvono il problema dei viveri con frequenti colpi di mano. Il caposaldo è isolato e il 28 settembre, dopo 160 giorni e 91 combattimenti, è costretto alla resa: anche a questi indomiti superstiti il nemico tributa l’onore delle armi. È qui che viene conferita la medaglia d’oro alla memoria al muntaz (caporale) eritreo Unafu Entisciau del 79° battaglione coloniale che, sottrattosi per tre volte alla prigionia dopo la caduta del caposaldo di Debra Tabor, raggiunge Uolkefit e, incurante del pericolo dei campi minati, mette in salvo la bandiera del suo Reparto ma cade dilaniato da un ordigno.
Una nota a parte merita la difesa ad oltranza del caposaldo di Culquaber: è il punto nevralgico del sistema di difesa, centro essenziale dei rifornimenti logistici la cui difesa è affidata al 1° Battaglione Mobilitato costituito da Carabinieri e Zaptiè (i Carabinieri di colore) al comando del magg. Serranti, al 67° battaglione Coloniale (magg. Garbieri) ed al 240° battaglione Camicie Nere (Seniore Cassoli). Il caposaldo sarà ricordato come la tomba dei Maggiori: cadranno tutti alla testa dei propri uomini, i primi due decorati di medaglia d’oro al V.M., probabilmente le ultime nell’agonia dell’Impero. L’Arma Benemerita scrive in quella lontana landa d’Africa una delle più fulgide pagine di dedizione alla Patria tanto che alla sua Bandiera viene conferita la medaglia d’oro al Valor Militare. È decorato di medaglia d’oro il Carabiniere Poliuto Penzo che, ferito tre volte nel corso dello stesso combattimento, incita i commilitoni fino a quando resta cieco e viene preso prigioniero. La battaglia finale infuria per dieci giorni e cade sul campo il 40% dei difensori. Il 21 novembre, con l’esaurimento di scorte di munizioni e viveri, Culquaber crolla aprendo la strada per Gondar ormai priva di difese esterne. L’antica capitale ammainerà il tricolore il 27 novembre ma i capisaldi di Ualag, Chercher, Celgà e Gorgotà, da tempo accerchiati, si arrendono il giorno seguente solo quando riceveranno l’ordine del gen. Nasi. La notizia nel Bollettino di guerra n. 544 del 28 novembre: “I valorosi combattenti di Gondar hanno assolto pienamente e con onore il grave compito loro affidato dalla Patria”.
L’Impero di Mussolini, dopo poco più di sei anni, non esiste più. Per nemesi storica, l’avventura coloniale italiana, iniziata nel 1855 con l’appoggio politico della Gran Bretagna in funzione anti-francese, si conclude militarmente per mano britannica.
Ma non tutti si arrendono. Il Cap. Bellia, con alcuni Ascari, organizza un’attività di guerriglia cui si aggiunge in seguito il Cap. Fascetti. Così il col. Di Marco nell’Ogaden, il magg. Lucchetti nei dintorni di Addis Abeba e il magg. Gobbi a Dessiè. Nel giro di un paio di mesi saranno tutti catturati. Una guerriglia più tenace sarà attuata dalla Banda Harti, formata da circa 250 somali dell’omonima tribù, al comando del Cap. Gianni. Operano nella zona del Giuba fino al febbraio ’41. C’è la Banda Bastioni: un giovane ufficiale con un gruppo di etiopi conduce una guerriglia fatta di colpi di mano e azioni di sabotaggio.
Intrappolata a Uolkefit riesce a sganciarsi per continuare la lotta fino alla resa per mancanza di munizioni e viveri.
Del tutto particolare e rocambolesca l’azione svolta da Amedeo Guillet, tenente di Cavalleria. Si è già distinto in Etiopia col Gruppo Squadroni a cavallo Spahi di Libia nel ‘35/36. Alla vigilia del conflitto mondiale è incaricato di costituire un Gruppo Bande Amhara a cavallo, unità speciale e autonoma con libero arruolamento. Riesce ad amalgamare Eritrei, Tigrini, Amhara e mercenari yemeniti. Dopo due mesi la Banda dispone di 800 Cavalieri, 400 Fanti yemeniti ed uno squadrone cammellato di 200 elementi. Il suo primo rilevante intervento bellico a Cherù quando è incaricato di coprire la ritirata a piedi, da Cassala, di 10.000 Fanti incalzati dagli Inglesi. È il 21 gennaio 1941 e l’impresa è disperata: la Gazelle Force britannica con tutto il suo apparato meccanizzato viene assalita da uomini a cavallo! Superato il primo schieramento, la Cavalleria carica anche l’Artiglieria schierata in retrovia tanto da evocare negli Inglesi la carica di Balaclava. Non domo carica nuovamente la Fanteria che si disorienta. Guillet, proposto per la medaglia d’oro, avrà solo quella d’argento ma l’8 marzo 1944 gli sarà conferita, da Re Vittorio Emanuele III in persona, la Croce di Cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia (OMS). Lo storico inglese John Keegan scriverà nella sua opera “La seconda guerra mondiale”: “La 4^ e 5^ Divisone indiane…ad un certo punto vennero caricate da un ufficiale italiano su un cavallo bianco, alla testa di una banda di cavalieri amhara lanciata alla disperata contro le loro mitragliatrici”. Sui bassopiani eritrei l’esercito inglese affronta così l’ultima carica di cavalleria della storia in terra d’Africa. La Banda Guillet sarà ancora protagonista sul Monte Cochen, ad Agordat, alla stretta di Dongolass ed alla gola di Ad Teclesan.
Con la caduta di Asmara Guillet, che parla correntemente l’arabo, assume l’identità di Ahmed Abdullah e, con un’ottantina di indigeni della sua Banda, inizia una guerra privata con atti di sabotaggio ed attacchi alle autocolonne britanniche causando gravi perdite agli Inglesi. Diventa la “primula rossa” cui dà una caccia spietata l’Intelligence britannica ed i suoi soldati lo chiameranno, ammirati, cummandar-as-shaitan, il “comandante diavolo”. Le crescenti difficoltà, specie d’armamento, lo inducono però a smobilitare dopo quattro mesi di vita errabonda. Dopo varie peripezie che sembrano scritte per un film d’avventura, Guillet, ormai compenetrato nell’identità araba, prima ripara nello Yemen e poi, ritornato in Eritrea, riesce a rientrare in Italia su una nave della Croce Rossa il 2 settembre 1943. Sorpreso a Roma dall’armistizio, passa le linee sul Volturno per raggiungere il Comando Supremo ormai a Brindisi ed esser pronto, ora col grado di Maggiore, nuovamente al servizio del Paese per contribuire alla liberazione dall’occupante nazista. nel dopoguerra passerà in Diplomazia e sarà apprezzato ambasciatore in India, Yemen, Giordania e Marocco.
È un fulgido esempio di dedizione alla Patria che ha servito, in armi e in Diplomazia, al di là di ogni convinzione politica o ideologica.
Il ricordo dell’Impero, costato sacrifici di vite e di lavoro, è affidato alla Storia per l’opera di civilizzazione e di ammodernamento che l’Italia vi ha svolto. A parte l’azione repressiva esercitata sia in Libia che in Etiopia dal Maresciallo Graziani, nel quadro di quella che veniva definita “opera di pacificazione”, l’Italia ha meritato, specie con l’opera illuminata del Duca d’Aosta, la riconoscenza delle popolazioni indigene. In particolare gli Eritrei, per maggior tempo sotto l’amministrazione italiana e che, con l’occupazione etiopica a guerra finita, saranno le vere vittime della guerra coloniale. Solo una lunga e sanguinosa guerra ha loro consentito di proclamare l’indipendenza dall’Etiopia, sancita con referendum del 24 maggio 1993.
Restano, ad imperitura memoria della presenza italiana in quelle terre, grandi opere d’ingegneria quali la diga di Tessenei che assicura fertilità ad una vasta area, la teleferica Massaua-Asmara, i grandi ponti, le ferrovie, le strade, le scuole e gli ospedali. E vi restano le spoglie di tanti suoi figli che, obbedendo al dovere cui erano chiamati, hanno immolato la loro vita, protagonisti di innumerevoli atti di sacrificio ed eroismo, tenendo sempre alto il nome ed il prestigio della Patria lontana.
Giuseppe Vollono
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