La Festa della Donna è una Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne ed è stata istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite tramite la risoluzione numero 54/134 del 17 dicembre 1999.
La Festa della Donna e la secolare inGiustizia misogina
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unti Chiave Articolo
La Giornata Internazionale della Donna (Festa della Donna) ricorre l’8 marzo di ogni anno per ricordare sia le conquiste sociali, economiche e politiche, sia le discriminazioni e le violenze di cui le donne sono state e sono ancora oggetto in quasi tutte le parti del mondo. E valicando il Tempo racconteremo anche della secolare inGiustizia misogina, attraverso quattro diverse ma significative storie di donne, arrogantemente umiliate, violate e persino arse.
La prima riguarda una giovanissima combattente che verso il termine del basso medioevo fu condannata a morte, ufficialmente poiché si vestiva da uomo.
La seconda è relativa ad una laureata in legge alla quale sul finire del 19° secolo fu negata la professione in quanto donna.
La terza più recente, riguarda una lavoratrice comune che tra la fine del 20° secolo e l’inizio del 21° si è vista negare il diritto al lavoro in quanto moglie.
E la quarta dell’anno passato è inerente una donna accusata di calunnia poiché durante il denunciato stupro aveva detto solo “basta”.
UNA DONNA ARSA:
Jeanne la pucelle (Giovanna la fanciulla). Perché lei così si faceva chiamare e così anche si firmava. Mentre Giovanna D’arco (Jeanne d’Arc) lo hanno coniato coloro che dopo la sua morte raccontarono di lei, poiché non era concepibile che una donna non avesse il cognome del padre, tanto che le cambiarono anche il nome seppure nel suo villaggio della Lorena le figlie femmine prendessero il cognome della madre e i figli maschi quello del padre. Ma neanche il cognome della madre era ammissibile per certa mentalità misogina. Giovanna tuttavia aveva avuto uno spirito così evidentemente indipendente che si era data addirittura un cognome nel quale meglio si identificava, “la Pucelle”. D’altronde, dalle testimonianze del suo processo, specialmente di quello rifatto vent’anni dopo la sua morte per, diremmo oggi, riabilitarne la memoria, tutti la definivano una ragazzina particolare, decisa, autonoma. Giovanna, nel 1431, venne processata con un giudizio, risaputamente preordinato, che non sto qui a riepilogare (su internet ci sono testi e video), nel quale dapprima fu condannata alla prigione a vita (oggi diremmo all’ergastolo) in quanto nelle battaglie contro gli inglesi e certi loro alleati francesi (i borgognoni) si era vestita da maschio indossando anche un’armatura da uomo, così violando quelle che erano i dettami dottrinali cristiani dell’epoca (un po’ come oggi in certe nazioni nel mondo, in cui alcune religioni-stato condannano una donna se non porta il burka o il velo, ecc.). E quando fu imprigionata, era tale la predeterminata avversione nei suoi confronti che, non si sa come, le furono portati dei vestiti da uomo nella sua prigione, sicché non resistendo a quel simbolo per lei di libertà dallo stereotipo femminile, li indossò e per questo fu a quel punto condannata al rogo. Addirittura, per giustificare questa “bestiale” e lampante persecuzione giudiziaria-dottrinale, essendo lei morta quasi subito per asfissia durante il rogo, questo fu spento e lei fu denudata per documentare a tutti che aveva i genitali femminili e quindi vestendosi da uomo aveva volontariamente profanato le concezioni ascetiche di allora in modo blasfemo e pertanto bene aveva fatto la Giustizia a condannarla a morte. Fu quindi riacceso il fuoco per non lasciare alcun resto di lei. Dall’alba dei tempi, la donna indipendente ha quasi sempre ingenerato una sofferenza psicologica e culturale nella mentalità rancida, supponente, insipiente, sostanzialmente insicura, ipocrita e mistificatrice e per questo la donna è stata anche abusata, torturata e pure uccisa. Nel nostro 21° secolo ci stiamo accorgendo che tutto ciò è ancora presente nel mondo e spesso molto più vicino e attuale di quanto potessimo immaginare.
Una donna umiliata:
Lidia Poet (da enciclopediadelledonne.it e da pietroichino-it): Una laureata in legge alla quale sul finire del 19° secolo fu negata la professione in quanto donna. Laureata in Giurisprudenza nel 1881, fu la prima donna ad essere iscritta ad un Albo di Avvocati nel 1883 (la legge professionale non prevedeva un espresso divieto per le donne), ma incontrò l’opposizione del Pm e la Corte d’Appello di Torino annullò l’iscrizione.
Sentenziò nel “1883 LA CORTE D’APPELLO DI TORINO:
La questione sta tutta nel vedere se le donne possano o non possano essere ammesse all’esercizio dell’avvocheria … ne risulta evidente esser stato sempre nel concetto del legislatore che l’avvocheria fosse un ufficio esercibile soltanto da maschi e nel quale non dovevano appunto immischiarsi le femmine … sarebbe disdicevole e brutto veder le donne discendere nella forense palestra, agitarsi in mezzo allo strepito dei pubblici giudizi, accalorarsi in discussioni che facilmente trasmodano, e nelle quali anche, loro malgrado, potrebbero esser tratte oltre ai limiti che al sesso più gentile si conviene di osservare … non occorre nemmeno di accennare al rischio cui andrebbe incontro la serietà dei giudizi se, per non dir d’altro, si vedessero talvolta la toga o il tocco dell’avvocato sovrapposti ad abbigliamenti strani e bizzarri, che non di rado la moda impone alle donne, e ad acconciature non meno bizzarre; come non occorre neppure far cenno del pericolo gravissimo a cui rimarrebbe esposta la magistratura di essere fatta più che mai segno agli strali del sospetto e della calunnia ogni qual volta la bilancia della giustizia piegasse in favore della parte per la quale ha perorato un’avvocatessa leggiadra … le donne, le quali avranno pure a riflettere se sarebbe veramente un progresso e una conquista per loro quello di poter mettersi in concorrenza con gli uomini, di andarsene confuse fra essi, di divenirne le uguali anziché le compagne, siccome la provvidenza le ha destinate.
La Cassazione di Torino confermò, utilizzando l’argomento che la professione forense dovesse essere qualificata un ufficio pubblico e come tale l’accesso era per legge vietato alle donne.
Trent’anni dopo, Teresa Labriola fu respinta dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma.
I Giudici come gli avvocati e tutti coloro che in genere si occupano anche oggi di Diritto, appaiono inquietanti quando sconfinano dalla loro materia che analizza e decide sui singoli atti, fatti e comportamenti, se rispettosi delle leggi.
UNA DONNA Infamata:
Una lavoratrice comune, che nel 21° secolo si è vista negare il diritto al lavoro in quanto moglie. La donna in questione lavorava dal 1983 in una società a responsabilità limitata che gestiva delle concessioni pubbliche.
La ditta a seguito di una serie di attentati di “matrice mafiosa” dopo alcuni anni chiuse per fallimento nel 1999.
Nel frattempo la lavoratrice nel 1988 si era anche sposata con l’amministratore della società.
La società pubblica di trasporti regionale che acquisì per decreto le concessioni, i contributi pubblici e tutto il personale maschile, rifiutò però di assumere anche l’unica donna che era la lavoratrice di cui trattasi.
La questione finì innanzi al giudice del lavoro.
La difesa della società regionale fu semplicisticamente che la lavoratrice non era tale in quanto sposata con l’amministratore della precedente ditta.
Il giudice di primo grado nella sentenza acconsentì a tale infamia, sentenziando che la lavoratrice non aveva dimostrato di essere tale. Quest’ultima fece appello e “ad abundantiam”, produsse tutta una serie di documentazione e testimoni, anche di uffici pubblici e fiscali con i quali per lavoro la donna aveva avuto continui contatti. La Corte d’Appello rigetto ogni prova e dichiarò ancora una volta soccombente la lavoratrice. Seguì il ricorso in Cassazione che lo accolse, però rinviando la causa al medesimo Tribunale, seppure con collegio diverso, affinché si accertasse la condizione lavorativa della donna. Il Tribunale del Rinvio, malgrado la produzione di ogni e qualsiasi documento e parecchi testimoni citati, rifiutò ogni e qualsiasi prova a difesa della donna e rigettò il ricorso. La lavoratrice ritornò nuovamente in Cassazione, la quale stavolta, come “Ponzio Pilato” rigettò il ricorso asserendo che non poteva entrare nel merito della decisione del Tribunale del Rinvio che evidentemente aveva valutato gli atti, quando invece non li aveva nuovamente neppure ammessi. Insomma una donna, una lavoratrice e una moglie (anche madre), si è vista umiliare, offendere, denigrare e condannare a circa vent’anni di calvario giudiziario con notevoli spese legali per migliaia di euro, poiché ad un certo punto della sua vita aveva deciso di sposarsi e questo legittimava la controparte e tutti i Giudici, a screditare la sua persona, dignità e onestà intellettuale, tanto da rifiutare questi ultimi persino ogni e qualsiasi prova e testimone a suo favore. Quando qualche tempo addietro un passato Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati (dott. Davigo) affermò in una intervista che i Giudici possono sbagliare poiché gli atti che vengono loro prodotti li traggono in inganno, evidentemente non poteva riferirsi al giudizio sopra riepilogato.
Una donna violentata. Un fatto riportato dal corriere della sera il 23 marzo 2017: «Ha detto basta, non ha urlato» Accusata di calunnia per aver denunciato lo stupro … «Quando ho sentito che lo assolvevano, è come avere subito violenza una seconda volta. Sono stata a casa cinque giorni a piangere. Mi sono sentita vuota. Adesso la cosa che mi fa più male è non essere stata capita da quelle giudici». Non trattiene le lacrime Laura, la giovane donna che lavora alla Croce rossa che deve fare i conti con le motivazioni di una sentenza che definisce “inverosimili” le sue accuse di stupro nei confronti di un ex collega perché, per fermarlo, gli avrebbe detto “solo basta”, senza “gridare” o “tradire emotività”. Dopo aver ascoltato il dispositivo della corte, Laura era svenuta. Fuori dall’aula. L’avevano soccorsa i colleghi venuti a darle supporto e l’ex moglie dell’imputato, in fase di divorzio, che l’aveva abbracciata prima che crollasse a terra. Oggi Laura è seduta nello studio della sua legale, Virginia Iorio, che sfogliando le carte non si trattiene: «Questa è una sentenza d’altri tempi. Questo processo non può prescindere dal profilo psicologico della vittima. Si è dato per scontato che tutti abbiamo le stesse reazioni in situazioni simili. Ha dell’incredibile … Vorrei mettere dieci donne in una stanza – spiega la legale – davanti a un trauma. Tutte e dieci reagiranno in modo diverso. Mi viene il sangue agli occhi: creare uno stereotipo di comportamento come quello che ha fatto questa sentenza. È come dire, noi siamo abituate a una tipologia e da lì non ci stacchiamo». Laura piange. Non riesce a parlare anche se si capisce che vorrebbe dire molte cose. A un tratto ammette: «Ora non denuncerei più. Chi me l’ha fatto fare. Lui c’era in aula, quel giorno in cui ho dovuto raccontare tutto. Quelle sei ore non passavano più». Ed è stato un successo, per l’avvocato Iorio, portare Laura davanti a un collegio. «Perché quando è arrivata da me la prima volta era come adesso – spiega – non riusciva a parlare e piangeva. Con grande sforzo ha avviato un percorso con una psicologa e ha tirato fuori delle cose. Ignorare il pregresso e la valenza del suo carico emozionale mi fa restare allibita … Laura sta affrontando con la psicoterapeuta la rimozione dei traumi del suo passato», aggiunge Iorio. «E allora io dico – precisa – è ovvio che alcuni dettagli li ricorda male, ma c’è una totale carenza di pathos in questa sentenza. Qui siamo di fronte a una donna che non aveva il coraggio di dire nulla, che lo ha trovato e che adesso si ritrova indagata per calunnia». Quest’ultima parola fa ripiombare la crocerossina in un fiume di lacrime. Ma la legale la guarda negli occhi e le dice: «Ascoltami, nessuno mi potrà mai fermare, se non la revoca del tuo mandato. Il pm sta scrivendo l’appello, andiamo avanti fino in Cassazione. Io combatterò fino alla fine, puoi starne certa». Laura pensa al fatto che non è da sola: i colleghi della Croce rossa hanno assistito a ogni udienza del procedimento. «Sono la mia famiglia», e le scappa un sorriso. Purtroppo non tutte le donne, ma soprattutto non tutte le persone che subiscono violenza e di ogni genere, da quella fisica a psicologica, a politica, sul lavoro, ecc. hanno almeno la possibilità di non rimanere poi sole e isolate.
Le nostre ataviche “ombre” interiori e culturali attraversano i secoli e sono costantemente presenti. Rimuoverle, nasconderle, mimetizzarle, edulcorarle, non prenderne consapevolezza, non accettarle per discuterne costantemente con onestà intellettuale, sensibilità scientifica e civile modernità, senza retorica, ideologie, supponenza, preconcetti e assilli, le riesuma in ogni tempo e luogo, in ogni individuo e collettività, niente e nessuno esente.
Adduso Sebastiano
vivicentro.it/CULTURA
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