I
documenti dell’ambasciata americana a Roma rivelano che alla fine dell’estate del 2011, prima dalla caduta di Silvio Berlusconi, due importanti membri del suo esecutivo, avevano espresso un timore: “Il governo non ce la farà”. Facendo capire a Washington che la sorte dell’esecutivo era segnata. David Thorne, ambasciatore Usa a Roma, trasmise il messaggio alla Casa Bianca.
Due ministri di Berlusconi confidarono agli Usa: “Il governo non ce la farà”
Le rivelazioni nei rapporti dell’ambasciatore Thorne: manovra debole, finiremo come la Grecia
La prima fonte
Il primo cable, che La Stampa ha ottenuto nel rispetto delle leggi americane, è classificato «sensitive» e parte il 31 agosto. Il governo ha appena varato la nuova manovra da 60 miliardi di euro, ma una fonte anonima dell’esecutivo avverte Thorne che «la seconda misura di austerity potrebbe rallentare la crescita economica italiana ancora di più. L’interlocutore ci ha detto che il governo ha messo insieme la nuova manovra in risposta a condizioni del mercato fuori dal controllo dell’Italia». La situazione è davvero drammatica, perché la fonte dell’ambasciatore gli confida che «i numeri sulla crescita usati come base per i pacchetti di austerità varati a luglio e agosto sono superati ed eccessivamente ottimistici. Lui teme che gli investitori smettano di comprare i bond italiani di lungo termine, perché gli acquisti del debito di Roma fatti dalla Banca centrale europea sui mercati secondari hanno generato una rendita artificialmente bassa».
“Italia sotto tutela”
L’Italia, secondo la fonte governativa di Thorne, è di fatto già sotto tutela: «La manovra di luglio avrebbe condotto al pareggio di bilancio entro il 2014. Purtroppo – dice l’interlocutore – il peggioramento nella crisi del debito europeo ha portato a spread allarmanti fra i titoli tedeschi a 10 anni e quelli italiani. Ciò ha generato le richieste di Parigi e Berlino affinché Roma approvasse misure addizionali di austerity per pareggiare il bilancio entro il 2013, in cambio degli acquisti del debito italiano da parte della Bce per stabilizzare le rese. La fonte ha sottolineato che la condizione del mercato che ha portato al secondo pacchetto di austerità era completamente fuori dal controllo di Roma, e non è stata il risultato di problemi economici interni».
L’alto esponente del governo Berlusconi, però, non è convinto dei provvedimenti appena presi dal suo stesso esecutivo: «Ha detto che il secondo pacchetto è debole. Conta troppo sulle entrate fiscali, e rallenterà ancora di più la crescita. Ciò creerà pressione per ulteriori misure di austerity, che innescheranno una spirale macroeconomica verso il basso. Le proiezioni del Pil che verranno pubblicate il 20 settembre ridimensioneranno quelle di agosto. Entro ottobre salirà la pressione per addizionali misure, ma ciò sarebbe politicamente ed economicamente inaccettabile per l’Italia». Il colloquio si conclude con una previsione ancora più drammatica: «Gli acquisti del debito italiano da parte della Bce hanno forse evitato una crisi sui mercati, ma potrebbero costituire il bacio della morte per la capacità di lungo termine del governo di vendere titoli».
La seconda fonte
Una settimana dopo Thorne incontra un altro esponente del governo, e il tono della conversazione diventa quasi tragico: «Ci ha detto che, senza una soluzione politica europea alla continua crisi dell’eurozona, l’Italia potrebbe avere bisogno di un’assistenza (non specificata) da Bruxelles nel giro di due o tre mesi, che si estenderebbe oltre gli acquisti del debito sovrano da parte della Bce». In altre parole, un «bail-out» alla greca. «Un importante banchiere ci ha detto separatamente di essere molto preoccupato riguardo la capacità dell’Italia e dell’Europa di trovare una via d’uscita. Ha dichiarato che la cancelliera tedesca Merkel è stata irresponsabile a definire fragile l’Italia e paragonarla alla Grecia». Il banchiere suggerisce a Thorne che «l’unica soluzione alla crisi dell’eurozona sarebbe una significativa e credibile dichiarazione politica da parte dei leader europei, che né l’euro, né alcuno dei Paesi dell’eurozona, verranno lasciati fallire. Questa dichiarazione, se seguita da azioni concrete, causerebbe un immediato e permanente balzo dei mercati». Il banchiere sentito dall’ambasciatore americano evidentemente sa di cosa parla, perché prefigura il «whatever it takes» che Mario Draghi, subentrato alla guida della Bce proprio in quelle settimane, pronuncerà il 26 luglio dell’anno successivo.
Il piano dei leader europei
I membri del governo Berlusconi che hanno questo livello di confidenza con Via Veneto si contano sulle dita di una mano, e il momento è così drammatico che il presidente Obama legge personalmente le mail di Thorne, temendo che il collasso di Roma faccia saltare l’euro e riporti la recessione in tutto il mondo. Proprio in questi giorni, secondo quanto ha scritto Geithner nella suo saggio Stress Test alcuni leader europei propongono alla Casa Bianca un piano per far cadere Berlusconi, negando all’Italia i prestiti del Fondo Monetario Internazionale fino a quando lui non andrà via. Obama però rifiuta il complotto.
Il programma del Fmi
Il 26 ottobre il premier invia una lettera ai colleghi europei, promettendo le riforme necessarie a evitare il collasso. Non convince nessuno, però. E quando il G20 si riunisce a Cannes, il 3 e 4 novembre, Berlusconi diventa l’imputato di un processo all’Italia per la minaccia di recessione globale che sta creando. In questa sede l’Fmi vara il programma di «enhanced surveillance», mettendo Roma sotto tutela.
Il tramonto del governo
Il 7 novembre Thorne avverte Washington che «il governo Berlusconi si trova davanti alle reale possibilità del collasso. La coalizione ha dato segni di rottura quando diversi parlamentari hanno abbandonato il Polo delle Libertà per unirsi all’Ucd di Casini. Tra i disertori c’era l’ex ministro dell’Interno Pisanu». L’ambasciatore poi rivela un particolare chiave: «Berlusconi ha dovuto fronteggiare la situazione venerdì notte, al ritorno dal G20 di Cannes. I suoi consiglieri più stretti, Gianni Letta, Angelino Alfano, Paolo Bonaiuti e Dennis Verdini, gli hanno detto che potrebbe non avere più la maggioranza, sollecitandolo a considerare un exit plan. Il premier ha giurato di continuare a combattere. Durante il fine settimana ha lanciato un blitz telefonico sui ribelli. Il risultato non è stato positivo, anche se la frenesia continua. Il leader della Lega Maroni ha detto che dovrebbe farsi da parte ora, invece di essere sconfitto in Parlamento. Se non ha più la maggioranza potrebbe apparire chiaro l’8 novembre, quando l’Aula voterà sul rendiconto».
Le dimissioni
Due giorni dopo, infatti, Thorne invia a Washington un rapporto classificato «confidential», con il titolo «Il sole tramonta sull’era Berlusconi». Nella conta alla Camera il governo ha ottenuto solo 308 voti favorevoli, cioè meno della maggioranza assoluta di 316, e 321 astensioni. Via Veneto tira un sospiro di sollievo: «Le opzioni del presidente Napolitano – spiega l’ambasciatore – includono le elezioni anticipate, o un governo tecnico di ampia base guidato da qualcuno tipo l’economista Mario Monti», che gli americani non hanno mai fatto mistero di stimare.
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