“ Immaginare il sacro ” a Vestone in “Via Glisenti 43”
span style="color: #ffffff;">“ Immaginare il sacro ”
Artisti bresciani che all’arte hanno consegnato un’impronta profonda, e al “sacro” qualcosa di straordinario in mostra a Vestone, nell’integrità dell’armonia e nello splendore necessario alla consonanza come significante del pellegrinaggio terreno verso il Principio … e riacquistare lo stupore.
di Andrea Barretta
“ Immaginare il sacro ” in una società nichilista è qualcosa di eccezionale, e farlo attraverso l’arte è ormai insolito per l’oggettivo abbandono di un tema caro più ai secoli passati che ai tempi odierni. Soprattutto per molti artisti contemporanei che confondono l’arte con la provocazione e il concettuale con il mercato, ovverosia una sorta di moneta di scambio per gli allocchi. Ed è con queste premesse che mi sono recato in visita alla mostra “Immaginare il sacro” allestita a Vestone (Brescia) dall’Associazione di promozione culturale “Via Glisenti 43”, ben sapendo dai nomi degli artisti presenti in locandina che questo mio pensiero sarebbe stato confermato, nel senso contrario, ovverosia quello di un sicuro approccio positivo all’arte sacra scaturita dalle mani, dalla mente e dal cuore, di importanti pittori del Novecento bresciano.
Ero pronto, dunque, alla bellezza di autori che hanno saputo celebrare il “sacro” e direttamente citarne nella pittura la radice semiologica che contiene qualcosa di eccezionale, a iniziare – nell’ambito del percorso espositivo – dalla memoria della contemplazione, dal patrimonio di idee che contiene, dal saper raffigurare un sentimento comune e straordinariamente inscindibile dalla propria esperienza esistenziale. Non solo. Il termine “immaginare”, usato nel titolo della mostra, collima proprio con l’aggettivo “straordinario” nell’evocare il non ordinario, che ha carattere speciale, ma non temporaneo o puramente accidentale, perché i dipinti in mostra non presentano soltanto opere di fantasia ma l’emozione di artisti che hanno colto dalla tradizione cristiana “l’immagine”, nell’accezione peculiare dell’interpretazione, nella forma dell’immaginarsi, cioè “immaginare a sé, dentro di sé”, per esprimerne il carattere soggettivo.
Da questa attività creativa, nei suoi rapporti con la realtà a cura di Sergio Monchieri e Giovanni Zani, ecco le opere, provenienti da collezioni private, di Eligio Agriconi, Giacomo Bergomi, Silvestro Cappa, Gianmaria Ciferri, Pietro de Paolis, Oscar Di Prata, Martino Dolci, Angelo Fiessi, Enzo Filippini, Abele Flocchini, Ottorino Garosio, Augusto Ghelfi, Ermete Lancini, Domenico Lusetti, Cesare Monti, Giuseppe Mozzoni, Matteo Pedrali, Luciano Pellizzari, Mario Pescatori, Giuseppe Rivadossi, Lino Sanzeni, Omero Solaro, Antonio Stagnoli, Giovanni Tabarelli, Edoardo Togni, Mino Trombini, fino agli scultori cosiddetti “boscaì”, nel richiamo all’intaglio del legno che ha avuto il suo apice nell’arte valsabbina del Sei-Settecento.
“ Immaginare il sacro ” per la risoluzione dei soggetti interpretati, presentati da Vasco Frati con acute riflessioni e da Gianfausto Salvadori che pone l’accento sull’immaginazione come “un modo di affrontare filosoficamente il pensiero del sacro”, è l’eccellenza dell’arte di diversi artisti che ci danno differenti letture possibili del tema proposto, e in una prima ricapitolazione, senza mettere in rilievo una storia o l’altra, certamente c’è da convenire che l’intera mostra può essere intesa come un “assolo” in un colpo d’occhio che appaga, ristora e avvicina alla spiritualità, dalle Processioni di Solaro (1909 – 2009) e Di Prata (1910 – 2006) o i Chierichetti di Trombini, in attesa della santa messa in una sacrestia con una crocifissione appena accennata sulla parete di fondo, alle “chiese” riportate nella loro essenza architettonica per quelle di Brescia (Agriconi, Lancini) o di Nozza (Garosio) in una giornata invernale illuminata dal biancore della neve, e la Chiesetta di Barbaine che Togni (1884 – 1962) immerge ai piedi delle sue montagne nello splendido scenario della Valle Sabbia, confermando di essere uno degli interpreti autorevoli della pittura di paesaggio en plain air, dalle campiture che richiamano la lezione di Giovanni Segantini, dalle pennellate divisioniste alle vibrazioni del suo personale e delicato tocco che in questa tela vediamo calibrato nella gamma dei gialli e dei verdi che si stagliano in un cielo luminoso.
C’è, insomma, la figurazione del sacro visto dai maestri del Novecento bresciano che sono già nella pace di quanto hanno cercato d’intuire, e da altri artisti in attività che oggi ne seguono le tracce indagando nella quotidianità di una religiosità popolare, sia essa una maternità (Ciferri, Stagnoli, Tabarelli) o i tratti del volto di Cristo elaborati nell’icona della terza dimensione, in atti plastici che alla scultura chiedono quel rinnovamento culturale di cui c’è bisogno, nel legno come matrice dell’arte artigianale, o nel marmo di Mater amabilis e Mater dolorosa di Rivadossi, oppure nella pietra di in Uomo solo di Sanzeni tra lamiere saldate a comporre figure antropomorfe.
Una prima sintesi è tutta qui, nel piano rinascimentale della dicotomia tra immanenza e trascendenza allorquando si fondava il paradosso della convergenza, non foss’altro per la percezione che si ha nelle due sale della mostra, nel ruolo che pone il pubblico in positura mediata con il contenuto delle opere e con la mimesi descritta da Platone. Non solo. Nell’idea dell’abbandono dell’idea neoclassica di contenuto aulico nel riprendere scene di vita di tutti i giorni, come per Corenno Plinio di Monti, che riconduce alla terra e al lavoro del contadino nelle figure in primo piano, in una sorta di inchino alla natura protetta dalla chiesa che si erge sulla rive del Lario, oppure nelle “crocifissioni” presenti con la possente carica emotiva che attinge al simbolico come capacità di testimoniare non soltanto il “credo” ma la grandezza della vita nell’estensione dell’eternità. E, in un certo qual modo, il compito di cucire e ricondurre a un’arte sacra contemporanea è qui ipotizzabile nell’opera Madonna con bambino di Tabarelli (1936 – 2016), dove raccoglie l’astrazione, ovverosia il processo di smembrare una parte da un tutto, e la rappresentazione figurativa riconoscibile in una esemplificazione estetica dell’antropocentrismo del bambino-uomo e della secolarizzazione tra emancipazione e desacralizzazione, che nel canovaccio di angoli e piani prospettici incrociati richiama le scomposizioni e ricomposizioni del cubismo. (Un consiglio: da vedere anche la sua Via Crucis nella chiesa parrocchiale poco distante, in cui è collocata anche una madonna di Garosio).
Siamo e restiamo tra pittori ancorati al territorio di residenza o per affetto di frequentazione, il Bresciano in genere e la Valle Sabbia, in particolare. E siamo nell’arte che alla metà del XX secolo caratterizza lo sguardo al “reale”, con artisti che non sono entrati a far parte di movimenti o gruppi ufficiali, oltre il ritrovarsi in mostre per incontri di conoscenza più che di “manifesto” (alcune di queste all’Associazione Artisti Bresciani, luogo di formazione anche intellettuale), ieri come oggi, se non per Fiessi che faceva parte dei “7 Pittori della Realtà” e per Monti che partecipò alla mostra inaugurale del gruppo “Novecento”, nel 1926, con artisti come Sironi e Funi, e nel 1938 alla prima mostra di “Corrente” (con Treccani, Birolli, Guttuso, Migneco, Vedova, Morlotti e Sassu), e alla Biennale veneziana già nel 1920 e per altre edizioni successive fino al 1950.
Se andiamo, infatti, a percorrere questo Novecento artistico bresciano, ricco di ideali culturali, troviamo questi artisti e altri che all’arte hanno consegnato un’impronta profonda, come pure Pedrali, in contatto con De Pisis, Santomaso e Vedova (nel 1959 espose alla Quadriennale di Roma insieme a Lusetti e Togni), e Stagnoli che nel 2011 partecipa alla Biennale di Venezia nel Padiglione Italia curato da Vittorio Sgarbi con la pala della chiesa di San Rocco a Bagolino: Madonna della Misericordia. E se per Di Prata c’è da annotare l’estetica “religiosa” che ben evidente nella sua produzione (in mostra una bella “Madonna con bambino”, nelle vesti non nella magnificenza celeste ma nella povertà di una famiglia), frutto del suo forte credo, come nei dipinti su tela La pietà (1971) e Il discorso all’areopago (1977), entrambi al Museo Internazionale d’Arte Sacra in Vaticano, una citazione a parte è per Lancini che meriterebbe un’adeguata riproposizione conoscitiva a se stante per la sua breve ma intensa carriera artistica, preso com’era da un percorso di ricerca tra Picasso e Rauschenberg.
Questo l’impatto con “ Immaginare il sacro ”, tra memoria e presente, tra poetiche personali che denotano il gene pragmatico della terra bresciana, dove il flusso di pensieri si stemperavano nella frequentazione con artisti internazionali, qui coesi nell’essenzialità che non capitola al pittoresco – per un discorso difficile come il sacro – e questo grazie al carattere dalle tradizioni contadine che guarda al sodo e al lavoro. Terra di cultura e di fede radicate in una ricerca della verità che non abbandona la traccia del disegno, come nei tratti di Di Prata (Le parole e le opere) o nelle tele di Mozzoni: Gesù porta la croce e Gesù giustiziato, nelle pennellate di Fiessi (Veduta del duomo di Brescia) e di Dolci (Chiesa sulla collina di Brescia), dove il cromatismo assume un aspetto osmotico con il soggetto. Così la pittura d’istinto nella ricerca volumetrica di superfici di Ghelfi: Chiese di Brescia, (nel 1956 espone alla Biennale d’Arte Sacra di Novara), che realizza vetrate per chiese e cappelle (da vedere quelle della chiesa di Santa Maria Crocifissa di Rosa a Brescia), e nelle Crocifissioni di Bergomi, nell’evoluzione tonale del colore spatolato tra luci e ombre nella resa di un drammatico sacrificio, e di Lusetti (1908 – 1971)che attira l’attenzione per le figure stilizzate che richiamano alla mente le sue sculture.
Ognuno di loro (e vorrei citare le opere di tutti) ha attraversato stagioni di cambiamenti sociali e correnti artistiche che dalla Francia e dagli Stati Uniti ormai influenzavano anche Brescia, ma va anche detto che quel senso comune della purezza delle forme e dell’armonia che il “sacro” richiede è stato rispettato, cosa che non si può dire oggi – come ho già accennato nell’incipit – soprattutto quando assistiamo a furori iconoclasti di certa non-arte contemporanea, nello scandalo di madonne e cristi profanati secondo intemperie che vorrebbero attingere alla “provocazione” senza accorgersi che sono non-artisti ma epigoni nella sostanza di vuoti a perdere.
Invece, “ Immaginare il sacro ” è un’operazione riuscita tanto che c’è da augurarsi abbia un seguito. Intanto, platonicamente, percorriamo la strada per l’arrivo di Dolci ad Assisi negli anni Cinquanta, dove tra una chiesa e l’altra, racconta il critico Luciano Spiazzi nella sua biografia, “trova il tempo di tirar fuori dal pennello un paio di processioncine …”, e quando si chiede “Martino pittore religioso?” scriverà che sì “gli piace la chiesa del Carmine, così slabbrata, come un amico che si conosce da tanti anni, … La messa alla mezzanotte di Natale, … la convinzione che ci si può voler bene … Poi il bicchiere all’osteria riandando al ‘pace agli uomini di buona volontà’. Pastore errante anche lui, … sotto i lumini del cosmo”.
Ecco, lo siamo anche noi, erranti per quell’umanità che sembra aver smarrito il senso nella cupidità, e lasciando questa mostra che ha saputo superare il rischio di una maniera di “genere”, abbiamo una scintilla dell’incanto che salva come riflesso epifanico nel condividerne la potenza creatrice, dell’arte sacra in cui la bellezza è funzione primaria non soltanto nell’ovvia integrità dell’armonia, ma per lo splendore (claritas) necessario alla consonanza come significante del pellegrinaggio terreno verso il Principio … e riacquistare lo stupore.
Andrea Barretta
“ Immaginare il sacro ”, dal 17 al 31 marzo, Spazio d’arte “Via Glisenti 43”, Vestone (Brescia), Via Glisenti 43.
Orari: giorni feriali, 17 – 19; festivi, 10 – 12 e 15 – 21. Ingresso libero.
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