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a revoca delle sanzioni internazionali all’Iran, sospettato di voler fabbricare la bomba atomica, è stata accolta, quanto meno nel mondo ricco, con un senso generale di soddisfazione: è sembrata, e a molti ancora sembra, come il punto di inizio di un’inversione di tendenza rispetto all’impressionante flusso di notizie mondiali negative che, all’incirca dall’inizio dell’anno, stanno contrassegnando le Borse, l’economia e la politica di tutto il mondo. L’illusione che ci si trovi davanti a un generico «vogliamoci bene» è durata poche ore (del resto, la revoca delle sanzioni è avvenuta senza alcun sorriso e con pochissime strette di mano): dopo aver scambiato con l’Iran alcuni prigionieri, gli Stati Uniti hanno immediatamente reimposto le sanzioni, sia pure in maniera limitata e senza coinvolgere gli alleati.
Si conferma, una volta di più, che la realtà mediorientale non si presta a facili semplificazioni e che dalla revoca delle sanzioni potrebbero derivare, accanto a effetti positivi diretti e immediati, anche importanti effetti negativi indiretti. Da un lato, la domanda iraniana di importazioni, bloccata da oltre un decennio si rivolgerà principalmente all’Europa con la forza di decine di miliardi di dollari iraniani detenuti all’estero che, a seguito degli accordi raggiunti, saranno «scongelati». Alcuni contratti importanti sono già abbozzati, come ricordava La Stampa di ieri.
Per l’Italia in particolare, l’aumento di domanda derivante dalla fine di sanzioni internazionali all’Iran potrebbe rappresentare una sorta di parziale «compensazione» a fronte dei danni derivanti all’economia italiana dalle sanzioni internazionali imposte alla Russia.
Vediamo ora gli effetti negativi, tralasciando le conseguenze che potrebbero derivare dall’attitudine non amichevole di Washington nei confronti di Teheran: nel giro di poche settimane, l’Iran si prepara a inondare il mercato petrolifero con almeno mezzo milione di barili aggiuntivi al giorno, stando al suo ministro degli Esteri, il che farà aumentare di almeno un terzo lo squilibrio tra un’offerta abbondante e una domanda molto debole, visto l’elevato livello delle scorte già esistenti.
Un tempo, una simile notizia sarebbe una stata salutata con giubilo dai Paesi importatori, in particolare da quelli europei. Ora però che il prezzo del petrolio ha già raggiunto livelli eccezionalmente bassi, questo abbassamento non sembra essere nell’interesse di nessuno: non dei Paesi esportatori ma neppure dei Paesi importatori, come l’Italia e gran parte dei membri dell’Unione europea, che ricavano una parte non trascurabile delle loro entrate fiscali proprio dalla tassazione del greggio, legata al prezzo di mercato.
Negli ultimi giorni, segnali d’allarme sono giunti da buona parte dei Paesi produttori, mentre le Borse punivano con forti ribassi pressoché tutte le compagnie petrolifere. In Venezuela, il presidente ha appena definito «catastrofica» la situazione economica, proprio per la riduzione degli incassi derivanti dall’esportazione di petrolio; in Nigeria, le transazioni bancarie sono paralizzate dalla paura; negli stessi ricchissimi Paesi del Golfo, le Borse hanno fatto registrare ieri cadute pesantissime e i governi si preparano a chiedere prestiti sul mercato internazionale.
In sostanza, il gioco petrolifero sembra essere scappato di mano a tutti, in un Medio Oriente in cui il miscuglio tra razionalità e religione si è ormai spostato nettamente a favore della religione. La razionalità dei comportamenti dei produttori di petrolio pare, infatti, un ricordo del passato e la componente religiosa è largamente determinante. Il più che millenario conflitto tra i musulmani sciiti (che hanno il proprio capofila precisamente nell’Iran), appoggiati dalla Russia e i musulmani sunniti (che hanno nel territorio dell’Arabia Saudita il principale centro religioso e l’origine dei maggiori flussi di petrolio) determina i comportamenti dei governi e i prezzi dei mercati. In un certo senso si può dire che il resto del mondo vive sull’orlo di una guerra di religione che, per la sua intensità e la sua violenza, fa impallidire la Guerra dei Trent’anni tra protestanti e cattolici, scoppiata quasi quattrocento anni fa. E che ritardò fortemente la crescita economica dell’Europa.
* mario.deaglio@libero.it / lastampa
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