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l tema delle Unioni Civili, la legge in discussione in questi giorni in Senato, sta provocando, in tutta Italia, forti reazioni.
Tante le manifestazioni di solidarietà a favore delle coppie omosessuali, così come tante sono le proteste contro il disegno di legge che sta facendo discutere gli Italiani.
Molte questioni di cui si è parlato parecchio negli ultimi giorni non sono ancora state risolte: non è chiaro su quanti voti sicuri possa contare la maggioranza, non si sa ancora quali e quanti voti segreti ci saranno, né se il patto politico tra i capigruppo di PD, Lega e Forza Italia per tagliare drasticamente il numero degli emendamenti sarà alla fine rispettato.
Quel che è certo è che sul provvedimento legislativo in questione è stata creata parecchia confusione, frutto della disinformazione di stampo cattolico; la protesta, infatti, abbraccia temi che in realtà non vengono nemmeno menzionati nel testo: stiamo parlando dell’ “utero in affitto”, l’aspetto che, più di tutti, suscita scalpore e che non c’entra nulla col ddl Cirinnà.
Ma procediamo con ordine e analizziamo la legge.
Il ddl è diviso in due capi: il primo capo, all’articolo 1, introduce per la prima volta in Italia l’istituto dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, inteso “quale specifica formazione sociale, ai sensi dell’articolo 2 della Costituzione”.
Il testo stabilisce la netta separazione semantica tra “nuove” unioni e matrimonio, secondo le richieste di diversi cattolici del PD; pertanto, cancella ogni riferimento al matrimonio e, di conseguenza, qualsiasi riferimento all’articolo 29 della Costituzione.
La legge propone quindi di introdurre, di fatto, un nuovo istituto di diritto di famiglia, del tutto diverso e distinto dal matrimonio.
Gli articoli più contrastati, e che costituiscono i “passaggi chiave” del disegno di legge, sono l’articolo 3 e l’articolo 5 del testo, ove si annidano i due punti critici del ddl Cirinnà, oggetto delle vivaci proteste degli ultimi giorni e le cui votazioni sono le più attese e importanti.
L’articolo 3 regola i diritti e doveri della coppia omosessuale, mentre l’articolo 5 introduce una piccola modifica alla legge del 1983 sulle adozioni in casi speciali, prevedendo la c.d. stepchild adoption, cioè la possibilità che in una coppia omosessuale uno dei due contraenti possa adottare il figlio naturale del partner.
Ma attenzione: la stepchild adoption non equivale alle “adozioni gay”, come qualcuno, pretestuosamente, vuol far credere, ma è semplicemente il riconoscimento, da parte del coniuge, del figlio naturale del partner. Niente di più!
In sostanza, se i due contraenti l’Unione Civile hanno dei figli, la legge dà la possibilità di includerli nel nuovo nucleo familiare: si tratta quindi di un’adozione sì, ma del figlio (o dei figli) del partner che smette così di essere “il partner” e diventa genitore (anche se non a tutti gli effetti).
Tra l’altro, questa eventualità è già prevista per le coppie eterosessuali dall’articolo 44, comma b, della Legge n. 184/83 recante la Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori.
Pertanto, è bene sottolineare che è del tutto esclusa l’applicabilità dell’istituto dell’adozione legittimante: per le coppie dello stesso sesso unite civilmente non sarà possibile adottare bambini che non siano già figli dell’altro o altra componente della coppia.
Ma, come prima si accennava, il timore è che la stepchild adoption incentivi l’utero in affitto, vietato in Italia ma praticato in alcuni Paesi esteri.
Tra le ipotesi di modifica in campo c’è la limitazione della stepchild adoption ai soli bambini già nati prima della formazione dell’unione, oppure una sanzione per l’utero in affitto praticato all’estero, che colpisca l’adulto ma non il bambino: una proposta difficile da tradurre in norma.
Passiamo ora agli articoli successivi, dove si provvede a disciplinare le modalità per la costituzione delle unioni civili e si spiegano le cause di impedimento, infatti, il Capo II (articoli da 11 a 23) definisce diritti e doveri derivanti dall’unione; stabilisce doveri di reciproca assistenza; diritti di permanenza nella casa comune di residenza; l’obbligo di mantenimento in caso di cessazione; parifica i diritti del convivente superstite a quelli del coniuge superstite; si spiegano le cause di nullità del contratto di convivenza.
Se questi sono i temi da affrontare, non ci resta che aspettare i prossimi sviluppi, auspicando un clima più sereno e collaborativo al fine di raggiungere un compromesso.
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