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n questi giorni sul web, nelle vetrine dei negozi , nei supermercati e nei centri commerciali imperversa la imminente strombazzata commerciale di Halloween. Tutti sono come ubriacati da maschere e zucche, da costumi stravaganti e certe volte al limite del macabro.
Ormai ce ne hanno fatto talmente una continua zuppa in tutte le salse, che volenti o nolenti, tutti sappiamo che si tratta di una vecchia usanza celtica che si celebra(va) in prossimità della ricorrenza dei Morti , tra il 31 ottobre ed il 1° Novembre. Era un loro modo di esorcizzare (forse) in modo scanzonato la realtà della morte. O un loro modo di divertirsi ricorrendo alla epopea di spettri e fantasmi, tanto connaturata alle loro ambientazioni nordiche, fatte di nebbie, foschie, freddo, umidità e vapori esalanti da terre gelide e brulle.
Ogni ambiente naturale e geografico produce i suoi frutti. Che è bene assaporare sul posto, in loco. Portati fuori, hanno il sapore di un frutto fuori stagione: bello a vedersi ma privo di sapore , di gusto.
Noi siamo mediterranei, solari, aperti e comunicativi e poco dovremmo avere a che fare con atmosfere umbratili e malinconiche che per divertirsi evocano ed imitano spettri.
Quando ero bambino, in Sicilia , la ricorrenza mesta dei Morti si colorava di una nota di gioia per i bambini. I Morti, infatti, portavano i doni ai Bambini.
Non esisteva solo Babbo Natale, nè la Befana, nè Santa Lucia. Il dono vero, “il regalone”, quello sognato e atteso per un anno, ai bambini lo portava il parente defunto. Esisteva una cultura dei valori della famiglia che coinvolgeva anche il ricordo dei nostri poveri morti, i “murticeddi”, venivano chiamati con un vezzeggiativo affettuoso.
A noi bambini veniva raccontata la vita del nonno defunto: come era, cosa gli piaceva fare, il suo lavoro, le sue peripezie in guerra, e le cose belle che aveva fatto per la famiglia e per la comunità. Persino che cavallo aveva e come solo lui riusciva a domarlo e montarlo.
Noi sapevamo tutto dei nostri cari familiari scomparsi e in tal modo con loro si continuava ad avere un ideale rapporto affettivo e costante nel tempo. Ma oggi le mamme raccontano ancora ai loro figli che i parenti defunti, in quella notte magica, abbandonano le loro Dimore lontane e tornano in frotta verso le case dei loro cari per lasciare tanti regali ai bambini? Non mi pare proprio. Anzi ormai da qualche anno – anche in Sicilia – è di moda imitare una antica usanza irlandese, la notte di Halloween, a ricordare in modo dissacratorio, il ritorno dei morti sulla terra. Infatti i ragazzi si mascherano da scheletri e fantasmi e girano per le strade e per le case a fare baldoria. E come in tutte le mode – televisive e mediatiche – il prodotto finale risulta sguaiato e scomposto.
Perché anche noi Siciliani – isolani come gli Irlandesi ! – non andiamo fieri delle nostre tradizioni?
Noi non possediamo l’orgoglio delle nostre tradizioni perché non abbiamo l’orgoglio di appartenere ad una Terra ed ad un Popolo. In questo nostro paese senza radici, per la pura smania di novità, si recepisce ogni usanza ed ogni moda senza discernimento alcuno. Importante che venga da fuori: dal continente, dall’estero, dall’America. Purché
non provenga dalla nostra isola. Tutto ciò che sa di siciliano noi lo rifiutiamo a priori, per un senso di fastidio e di repulsione, come qualcosadi antiquato e demodè, quasi a vergognarsene.
Una nostra tradizione strana, singolare quanto vogliamo, questa dei Morti, ma che aveva una sua ragione e una sua cultura della memoria tutta siciliana. Oggi, la nostra terra è tutto un altro paese, globalizzato, che viaggia alla stessa velocità di tante città europee, con cui ora condividiamo Befana, Babbo Natale e persino la zucca di Halloween.
E per questa sciocca smania di novità ci siamo dimenticati che i nostri Morti sono la cosa più cara e più santa che possediamo, sono gli antenati di ogni famiglia. Sono le persone che noi abbiamo amato e che ci hanno amato; e che continuano a vivere nei nostri cuori.
Per i Morti si celebra quasi un loro ritorno momentaneo, ma intenso di sentimento ed immutato affetto. Tanti parenti cari, carissimi, passati nell’aldilà, che ritornano per un attimo, discretamente, in punta di piedi portando doni amorevoli per i famigliari più piccoli, costruendo un ponte di affetto tra il mondo dei bambini e quello degli antenati, un rapporto che unisce simbolicamente il passato che fu ed il futuro che sarà. Un arcobaleno di tenerezza tra tenere manine che si protendono verso mani ossute, diafane, ormai scarnificate, ma pur tuttavia ancora cariche di doni.
In questo legame mistico che congiunge la vita e la morte, i nostri morti ci mandano a tutti noi un messaggio costante di tenerezza, rivolto in modo speciale ai bambini, che sono il germoglio della società e la speranza dell’umanità.
Le ricchezze siciliane sono tante e spesso di una delicatezza e bellezza unica al mondo.
Mi piacerebbe che tutti insieme ci chiedessimo: le stiamo salvaguardando? O nel nostro correre intorno al mondo alla velocità del Web stiamo perdendo l’unicità e la bellezza della sicilianità?
Comportiamoci in modo che di noi non si debba dire: poveri, poverissimi quei popoli che smarriscono il senso profondo delle proprie tradizioni e della propria identità.
Diversamente il rischio è di scivolare a diventare “un volgo che nome non ha”.
Carmelo Toscano
Un maestro come ANDREA CAMILLERI così CI RACCONTA, da par suo: “IL GIORNO DEI MORTI!”
“Fino al 1943, nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre, ogni casa siciliana dove c’era un picciliddro si popolava di morti a lui familiari. Non fantasmi col linzòlo bianco e con lo scrùscio di catene, si badi bene, non quelli che fanno spavento, ma tali e quali si vedevano nelle fotografie esposte in salotto, consunti, il mezzo sorriso d’occasione stampato sulla faccia, il vestito buono stirato a regola d’arte, non facevano nessuna differenza coi vivi. Noi nicareddri, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un cesto di vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c’erano in famiglia) che nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e di regali che avremmo trovato il 2 mattina, al risveglio.
Eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri morti, mentre con passo leggero venivano al letto, ci facevano una carezza, si calavano a pigliare il cesto. Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all’alba per andare alla cerca. Perché i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e perciò il cesto non lo rimettevano dove l’avevano trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa. Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo. I giocattoli erano trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che formavano paesaggi. Avevo 8 anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato nelle mie preghiere, mi portò dall’aldilà il mitico Meccano e per la felicità mi scoppiò qualche linea di febbre.
I dolci erano quelli rituali, detti “dei morti”: marzapane modellato e dipinto da sembrare frutta, “rami di meli” fatti di farina e miele, “mustazzola” di vino cotto e altre delizie come viscotti regina, tetù, carcagnette. Non mancava mai il “pupo di zucchero” che in genere raffigurava un bersagliere e con la tromba in bocca o una coloratissima ballerina in un passo di danza. A un certo momento della matinata, pettinati e col vestito in ordine, andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i morti. Per noi picciliddri era una festa, sciamavamo lungo i viottoli per incontrarci con gli amici, i compagni di scuola: «Che ti portarono quest’anno i morti?».
Insomma il 2 di novembre ricambiavamo la visita che i morti ci avevano fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un’affettuosa consuetudine. Per questo motivo le scuole chiudevano, perché la visita ai nostri morti era sacra”
ANDREA CAMILLERI
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