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Castellammare di Stabia

Il governo Gentiloni con i ministri di Renzi

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span id="m_5464703959841450690docs-internal-guid-5266182b-f52a-df9b-1c1a-c474bc7c276c">L’Italia ha il suo sessantaquattresimo governo: Paolo Gentiloni e i suoi ministri giurano al Quirinale. Nell’esecutivo non si notano grandi differenze con il governo precedente, tanto che l’incipit del pezzo di Mattia Feltri de La Stampa, che era sul Colle a seguire il giuramento, è: “Mancava soltanto Matteo Renzi”.

Le new entries sono Anna Finocchiaro e Valeria Fedeli, l’unica a uscire è Stefania Giannini. Il nuovo ministro degli Esteri è Angelino Alfano, il ministro degli Interni è Marco Minniti.

Una cerimonia sprint tra precarietà e malinconia

La Boschi arriva prima al Quirinale. Alfano non nasconde la soddisfazione. Pochi parenti e nessuna gaffe

ROMA – Mancava soltanto Matteo Renzi. Per il resto c’erano tutti, è stata una bellissima rimpatriata, c’era anche Maria Elena Boschi, cancellata dal governo da cui è stato cancellato il suo ministero, quelle delle riforme cancellate dal referendum, ma arrivata al Quirinale come a marcare il territorio, dall’alto del sottosegretariato alla presidenza del Consiglio che il premier, Paolo Gentiloni, ha concesso a lei e al suo predecessore. Arriva per prima, Maria Elena, con un sorriso da continuità nella discontinuità (ormai risuonano in acustica perfetta certe espressioni antiche), vestita in blu quirinalizio, attraversa il salone delle Feste, sede del giuramento con il passo di carica dei frementi giorni d’esordio, e si infila dietro al cordone insieme con i parenti dei ministri. Ecco, i parenti. Si cercano sempre i parenti in queste occasioni, fanno quel po’ di colore in una cerimonia grigia, di una rigidità protocollare raggelante, una specie di cimitero della narrativa; ma stavolta i parenti li si guarda da lontano, il figlioletto di Angelino Alfano, la figlia grandicella e carinissima di Dario Franceschini, il marito di Valeria Fedeli, l’unica vera esordiente, destinata all’Istruzione. Ma stavolta, per decisione unanime, i giornalisti li lasciano stare, li chiamano i «parenti delle vittime», e un po’ le espressioni dei giuranti sono quelle, non proprio un luna park della politica. Hanno tutti quella cera dei sopravvissuti al capitano, e però coi giorni contati, certe faccine diafane, si potrebbe dire del colore dello yogurt, per usare il termine in voga a cui il governo non andrebbe accostato, ma si accosta, eccome.

È stata una cerimonia così, malinconica – l’aggettivo preciso usato in uscita dal palazzo da Marianna Madia – sembrata persino più sbrigativa del solito, cominciata con qualche minuto di anticipo in sintonia con la fretta furibonda di queste ore, di un ritmo che nessuno avrebbe sospettato nel presidente Sergio Mattarella, e che anche ieri sera aveva l’espressione e la vivacità di certi mediani del calcio, che sembrano fermi ma poi fanno girar veloce la palla. Tutte le nostre aspettative non sono nemmeno andate deluse, erano entrate con noi dal retro, già infiacchite, tutto quell’armamentario delle cerimonie inutili, l’emozione dei novizi, i balbettii a voce tremolante alla lettura della formula, i piccoli inciampi sui tappeti preziosi, erano un armamentario in cui nessuno confidava perché al Quirinale, ieri sera, erano già tutti scafatissimi, al secondo o al terzo giro e, anzi, uno come Angelino Alfano ormai sale al Colle ogni sei mesi per giurare, visto che cambiano i governi, le maggioranze, gli schieramenti, intere geografie politiche, ma lui c’è sempre, una specie di corazziere degli esecutivi. E infatti è stato fra quelli che dopo si sono concessi alle telecamere, aveva una fierezza da leader che ha confermato i ministri del suo composito gruppo parlamentare, una soddisfazione da buon mercante uscito ingrassato da un grande affare.

A parte questa contabilità, nessuna emozione, nessun fermento, una mestizia da incarico serale, quasi di soppiatto, fra l’aperitivo e la cena per non dare nell’occhio, e forse non dare nell’occhio sarà il programma dei prossimi mesi, che siano pochi o pochissimi. Una sfilata di precari delle istituzioni, di reduci da un’avventura che doveva essere esaltante e rivoluzionaria e s’è conclusa con un plebiscito al contrario, e che adesso sono obbligati a tirare a campare dentro un progetto ambiziosamente generico e con davanti un orizzonte ristretto, anche nella migliore delle ipotesi. E in un clima del genere che si poteva fare? Qualcuno ha provato con i soliti trucchetti, per esempio a sfogliare il pantone per centrare l’esatta tonalità di rosso della giacca di Beatrice Lorenzin, o a individuare qualche capo di Zara o di Coin o di altri magazzini popolari esibito in certificazione di frugalità. Macché, niente. Non faceva presa. Non funzionavano nemmeno le ironie canore di uno che citava Sergio Caputo («ma è lunedì / e i barbieri sono chiusi») per insinuare su acconciature instabili quanto l’esecutivo. E probabilmente a scoraggiare arie di festa c’era anche lo sguardo di Mattarella, quasi un imitatore di se stesso, un busto di marmo, non sbatteva nemmeno le palpebre, guardava inchiodato i ministri impegnati nel giuramento lasciando trasparire una fissità eterna, e concedendo una smorfia interpretabile come sorriso soltanto alla fine, alla foto di gruppo.

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Neanche mezzora ed era già tempo di andarsene, si è lasciato blandamente il salone solitamente strapieno, dove conquistare un quarto di metro quadrato era un’impresa, e invece ieri si era in quattro gatti, costretti alla solita incombenza quasi per dovere di presenza. E con noi sono usciti i ministri, fuori al freddo su una piazza semivuota, ed era successo tutto così alla svelta – le dimissioni di Renzi, le consultazioni, l’incarico, il nuovo gabinetto, il giuramento, le feroce polemiche sulla squadra fotocopia – che non c’è stato nemmeno il tempo di notare che le donne sono di nuovo poche, che i giovani sono un po’ meno giovani, che bisognerà andare alla ricerca di soccorritori dopo l’arrivederci di Denis Verdini per mancata ricompensa. Perché è una sera d’inverno, e qua fuori il mondo è furente, affila le punte dei forconi, e non sembra avere alcuna aspettativa in questo drappello di volenterosi, soldati di prima linea su cui arriveranno i primi colpi, se non l’aspettativa che anche questa strana stagione si concluda per aprirsi a una primavera. Sebbene poi, in primavera, piova spesso.

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