Marcello Sorgi ripercorre gli errori degli ultimi mesi che hanno generato il risultato: i “treni persi dal Movimento”.
Quei treni persi dal movimento
S
i aspettavano la botta, ma non è che gliene importi molto. La crisi del Movimento 5 stelle, uscito sconfitto dal primo turno delle amministrative, rimasto fuori dai ballottaggi dei capoluoghi più importanti, a cominciare da Genova, la città di Grillo, e ridotto a consolarsi con Carrara o con piccoli comuni difficili da individuare sulla carta geografica, era già tutta scritta. Tra loro lo sapevano, conoscevano uno per uno i litigiosi candidati locali che fino all’ultimo se le son date di santa ragione. Eppure è lo stesso Movimento che un anno fa, a sorpresa, trionfò con quasi il settanta per cento con Virginia Raggi a Roma e battè a Torino con Chiara Appendino un sindaco molto amato come Fassino, entrando in 19 dei 20 spareggi finali di quel turno elettorale. Stavolta non era aria, spiegano loro, sotto il vincolo obbediente dell’anonimato. Grillo era stanco. Il Movimento vive dei repentini cambi d’umore e entusiasmo del proprio leader e fondatore. La Casaleggio associati è stata sommersa dai ricorsi, chiamiamoli così, originati dalle risse della periferia. Non sempre ha scelto bene chi rimettere in pista. E chi ha avuto torto, ha fatto campagna contraria, proprio come nei vecchi partiti con le correnti.
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La storia di queste elezioni perse male da M5S si spiega rivedendo città per città cosa è accaduto prima del voto. Di Genova, della lite insanabile tra Grillo e il suo candidato Pirondini e la vincitrice delle primarie Cassimatis, che poi s’è candidata lo stesso ed è stata sonoramente sconfitta, si sapeva: è la vicenda che ha fatto più rumore perché il potere del Garante non può essere messo in discussione, e Grillo ha dovuto intervenire pesantemente, seppure di malavoglia. Ma problemi del genere, più o meno gravi, si sono ripetuti anche a Parma, L’Aquila, Taranto, Palermo. Nella città padana in cui Pizzarotti, cinque anni fa, era stato il primo sindaco a 5 stelle eletto, non c’era spazio né per una ricomposizione, né per una contrapposizione con l’eretico primo cittadino caduto sotto la ghigliottina del Movimento: con il risultato che se, com’è possibile, Pizzarotti succederà a se stesso, la sua rielezione verrà a sottolineare la sconfitta stellata del 2017. A Taranto e a L’Aquila le beghe pre-elettorali avevano in comune il potere indiscusso (ma fino a un certo punto), rispettivamente dell’eurodeputata Rosa D’Amato e della senatrice Enza Blundo, le «zarine», qualcuno si spinge a definirle nel Movimento, che volevano mettere come candidati sindaci i propri portaborse, sollevando comprensibili reazioni di altre componenti del M5S e svariati gineprai dei «meet-up» di cittadini, divenuti ormai incontrollabili. A Palermo, dove per il discusso aspirante conquistatore della città della Conca d’Oro, Forello, si trattava di competere con un candidato imbattibile come Orlando, unico sindaco metropolitano eletto al primo turno, era esploso lo scandalo delle firme false sulle liste e delle intercettazioni private, fatte con i telefonini, tra i diversi candidati per sputtanare gli avversari.
In altre parole, una guerra civile interna nella quale né Grillo, né Davide Casaleggio, sono riusciti a intervenire, rassegnandosi alla fine a un esito elettorale incerto, che magari non immaginavano negativo fino a questo punto. Adesso, com’è ovvio, dicono che non dovrebbe influire più di tanto sulle prospettive strategiche del Movimento, in corsa per il governo e la guida del Paese fino a qualche giorno fa, ma dopo la rottura del «patto a quattro» che doveva portare al ritorno del proporzionale e alla concreta possibilità, dopo il voto, di un’alleanza tra 5 stelle e Lega, tornato in una chiara situazione d’empasse.
Abituati a dare di sé l’immagine monolitica dell’uno per tutti e tutti per uno (oltre alla regola-base: uno vale uno), i dirigenti del Movimento rifiutano l’idea che la responsabilità della fine dell’accordo sia loro e del voto sconsiderato che ha fatto passare giovedì il noto emendamento sul Trentino. Piuttosto, gettano la colpa su Renzi che s’è rimangiato con un pretesto, e sul Pd che non ha perso l’occasione di cancellare, la legge grazie alla quale il fronte istituzionale dell’«inciucio» e del patto del Nazareno e l’asse populista-sovranista di Grillo e Salvini si sarebbero trovati a gareggiare ad armi pari. Dopo quel naufragio parlamentare – i 5 stelle non se lo nascondono – tutto è diventato più difficile. Certi treni passano una volta sola.
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