C
’è un fantasma che si aggira per l’ Europa. Ed è l’immigrazione. Per essere un fantasma è molto visibile. Basta scendere nelle strade e nelle piazze di qualsiasi cittadina dell’Ue. Basta accendere la tv. Basta ascoltare i politici. Da buon fantasma, terrorizza soprattutto dov’è meno visibile, a Bratislava o a Budapest, e dove si crede alla difesa dell’omogeneità.
Ora, in Europa, c’è molto poco di omogeneo (la lingua? La cultura? La cucina?); le comuni radici cristiane si sono divaricate in riti, scismi e Chiese diverse, e sono cresciute accanto alle onnipresenti comunità ebraiche.
L’omogeneità è un’etichetta di comodo che sorvola su minoranze, guerre di religione, pogrom (la Shoah è un caso a parte per magnitudine ed efferatezza). Non calza neppure a livello nazionale, basta chiederlo al disfunzionale Belgio o alla centrifuga Spagna. In Europa orientale, dove la bandiera dell’omogeneità sventola più alta, i confini tagliano a piacimento comunità e lingue: senza Nato e senza Ue il contenitore delle rivendicazioni nazionalistico-etniche sarebbe esploso ben oltre i confini dell’ex-Jugoslavia.
L’Europa è un mosaico e lo sono spesso anche le nazioni che ne fanno parte. L’immigrazione lo sta mettendo a dura a prova. Fra i molti problemi che l’Unione Europea ha oggi sul tavolo (non crescita, terrorismo, Russia, Mediterraneo) è sicuramente al primo posto. E’ anche un complesso fenomeno di massicci spostamenti e di assestamenti demografici ed economici, che ha bisogno di essere gestito non soltanto arginato.
Il tema è politicamente tossico per i governi nazionali. Oggi, nessun leader si permette di parlar bene d’immigrazione, valorizzandone gli aspetti positivi, come fanno tutti i politici americani – a parte le intemperanze di Trump. Nel vecchio continente lo può fare Papa Francesco. Per chiunque altro sarebbe un suicidio elettorale.
L’America è una nazione d’immigranti. L’Europa ha l’alibi di un Dna europeo emigratorio e colonizzatore: gli olandesi andavano a mettere radici in Indonesia, non viceversa. E’ stato così per almeno quattro secoli. Ma nel giro di pochi decenni i flussi si sono drasticamente invertiti e l’alibi non regge più. Piaccia o no, l’Europa è diventata terra d’immigrazione. Ma non solo perché i migranti, rifugiati in fuga da guerre e dittatori, poveri del mondo in cerca di miglior vita, vogliono venire in Europa. Anche perché l’Europa ha bisogno di loro. Non di tutti e non necessariamente di quelli che arrivano, ma ne ha bisogno.
Nessuno ha però il coraggio di dirlo. Dei leader, solo Angela Merkel ha aperto clamorosamente le braccia ai rifugiati, salvo dover poi fare un mezzo passo indietro. E l’ha fatto, come più timidamente l’hanno fatto Matteo Renzi ed altri, sullo slancio di un generoso impulso umanitario e civile, per la difesa dei valori europei, non per enunciare una vera e lucida politica dell’immigrazione. L’unico che ha avuto il coraggio di prendere il toro per le corna e di dire che l’aumento dei migranti compensa il naturale declino della popolazione europea (anzi, non basta) è stato Mario Draghi.
Draghi non può non sapere che il suo riferimento all’immigrazione, pur nel contesto di un discorso incentrato sulle riforme, fra cui appunto l’integrazione dei lavoratori immigrati, gli attirerà non poche critiche. E’ abituato al fuoco alzo zero. Né sta al Governatore della Banca Centrale Europea farsi portavoce della necessità che l’Europa si dia una politica dell’immigrazione in positivo (integrazione) e non solo in negativo (controlli e respingimenti). Tocca, o toccherebbe, adesso ai leader nazionali e a Bruxelles raccogliere il suo assist. Ma hanno elezioni e inibizioni; difficile che lo facciano.
Draghi ha solo ricordato all’Europa che l’immigrazione non è solo un problema; può essere parte della soluzione. Peccato che, ancora una volta, il coraggio di guardare in faccia la realtà venga dal Governatore della Bce, e non dalla leadership politica europea.
vivicentro.it/editoriale – lastampa/EUROPA L’anomalia di Super Mario nel silenzio Ue STEFANO STEFANINI
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