Soltanto una minoranza di musulmani aderisce al terrorismo, ma in nome della fede si stringono alleanze e patti operativi
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UESTA volta è toccato a noi, ai nostri connazionali trucidati a Dacca Ma ormai è evidente che l’attacco del terrorismo islamista non risparmia nessuno. Non si tratta, dovrebbe essere ormai chiaro, di un problema medio-orientale, e non basta, per spiegarlo, chiamare in causa le disgraziate avventure militari americane in quella regione, l’irrisolta questione palestinese o la contrapposizione settaria fra sunniti e sciiti.
Tutti aspetti che contribuiscono alla radicalizzazione jihadista a livello mondiale, ma che certo risultano insufficienti per capire quello che è accaduto in Bangladesh. A rendere difficile la nostra risposta (che deve essere nello stesso tempo militare, di intelligence, politica e culturale: smettiamola di pensare che una sola dimensione possa funzionare) è proprio questa complessità del fenomeno, questo confluire di spinte contrastanti, squilibri, frustrazioni, contese geopolitiche.
Speriamo a questo punto di non sentir dire ancora una volta che “la religione non c’entra” e che “i terroristi non sono veri musulmani”, perché, anche se è vero che solo una ridotta minoranza di musulmani aderisce al terrorismo islamista, è la religione a fornire ideologia unificante e linguaggi, oltre che a configurare una micidiale rete entro la quale prendono corpo alleanze e sinergie sul piano operativo. E poi, come si fa a dire che la religione non c’entra quando i macellai di Dacca hanno selezionato le vittime da uccidere con i machete chiedendo agli ostaggi di recitare il Corano?
I terroristi di Parigi e Bruxelles hanno usato esplosivi e kalashnikov: quelli di Dacca avevano armi non troppo sofisticate e soprattutto machete – quei machete usati in Bangladesh, ormai da molti mesi, in uno stillicidio di uccisioni ispirate da un estremismo religioso diretto contro atei, gay e seguaci di religioni diverse dall’Islam. Un terrorismo “artigianale”, ma non per questo meno atroce, nei cui confronti il governo della Primo Ministro Sheikh Hasina aveva dato prova di pavida ambiguità, arrivando persino a far intendere che le vittime se l’erano cercata, dato che “avevano offeso la religione”. Ecco cosa accade quando vengono meno i capisaldi dello stato di diritto e di una laicità che deve difendere i credenti di tutte le religioni e i non credenti: “stato laico più libertà religiosa”, come ha detto recentemente Papa Francesco, segnando un punto di arrivo del lungo e difficile processo della Chiesa cattolica nei confronti della libertà di coscienza. Un processo che nell’Islam è solo agli inizi, e che anzi risulta attualmente minacciato dalla recrudescenza di tendenze estremiste che sono sempre esistite storicamente, ma che oggi trovano spazio negli sconquassi di una globalizzazione che promette più che mantenere e che soprattutto ha aumentato le disuguaglianze, nella caduta di un sistema bipolare che non è stato sostituito e nella sinistra influenza saudita a base di una potente combinazione di ideologia wahabita e di tanti soldi.
L’islam del Bangladesh era un tempo moderato. Prima del 1947, data della traumatica indipendenza di India e Pakistan, si trattava di un islam plasmato dalla convivenza con l’induismo e con le altre religioni del subcontinente indiano. La tragedia della partition aveva radicalizzato e introdotto violenza e odio. Ma non basta, dato che il Bangladesh è il prodotto di un’altra sanguinosa partition , quella del 1971, il distacco dal Pakistan dopo una feroce guerra il cui trauma non è ancora superato. Se qualcuno dovesse pensare che per vivere in pace bisogna separare e costruire entità etnico-religiose omogenee, il caso del Bangladesh dovrebbe farlo ricredere.
La storia è importante, ma non spiega tutto. Ovunque ci sono spinte radicali, ovunque esistono nuclei violenti e intolleranti potenzialmente capaci di entrare in azione. Ma se oggi il potenziale di violenza si traduce su scala mondiale in uno stillicidio di episodi uno più atroce dell’altro è perché, pur nella varietà di motivazioni e composizione sociale di questi gruppi (gli ex piccoli criminali di Parigi e Bruxelles non hanno niente a che vedere con il sottoproletariato del Bangladesh) esiste un potente e unificante elemento ideologico. E quale ideologia è più forte di quella religiosa? Non esiste un comando centrale, un Grande Vecchio islamista da cui provengono ordini e strumenti operativi. Ma non è neanche vero che siano in campo solo “lupi solitari” e nuclei autonomi. Lo Stato Islamico, che in questo caso ha rivendicato la paternità dell’operazione, c’entra, ma con una varietà di modalità che lo rendono particolarmente pericoloso – più pericoloso della stessa Al Qaeda, che continua ad operare, ma ormai come socio minore dello schieramento jihadista – e difficile da contrastare.
L’attentato dell’aeroporto di Istanbul è stato opera di foreign fighters almeno in un caso provenienti dalla “capitale” dello Stato Islamico, Raqqa. Un’operazione diretta, anche se non rivendicata probabilmente per aggiungere un elemento di confusione in un paese alle prese con la questione curda. A Orlando, in Florida, l’afgano-americano Mateen ha citato lo Stato Islamico come ispirazione della sua strage alla discoteca gay, ma anche – con una contraddizione che rivela un’ignoranza sconcertante per un sedicente militante islamista – Hezbollah. Un “lupo solitario”, certamente, ma capace comunque di mettere in atto un’azione che oggettivamente s’inserisce in un disegno destabilizzatore a livello globale.
La strage di Dacca si situa a metà strada tra questi due estremi. È opera di fanatici che non fanno parte di una rete operativa transnazionale, ma che trovano nello Stato Islamico un riferimento cui corrisponde un coinvolgimento della “casa madre” di Raqqa a livello di comunicazione. Fa pensare il fatto che immagini trasmesse dagli assassini dall’interno del ristorante siano state inviate alla efficiente rete di comunicazione dello Stato Islamico che le ha ritrasmesse, appropriandosi a posteriori di un’operazione che certo non aveva bisogno di una direzione esterna.
Emerge qui un’altra delle ragioni che rendono particolarmente difficile lottare contro il jihadismo globale: l’esistenza di internet e dei social media. Risulta oggi patetico l’entusiasmo di chi riteneva che le prospettive schiuse dalle straordinarie ed accelerate trasformazioni nel campo delle comunicazioni sarebbero state unicamente positive. In particolare si è sottolineato che il fatto che i governi perdessero il monopolio dell’informazione avrebbe avuto un effetto positivo sul grado di libertà degli individui e dei gruppi. Vero, ma si era dimenticato il rovescio della medaglia, ovvero il fatto che chiunque – compresi i terroristi e i criminali comuni – hanno acquistato un potentissimo strumento per portare avanti le proprie finalità. Viene in mente l’entusiasmo che, al momento della diffusione della radio come strumento di comunicazione di massa, portò molti commentatori a dire che la democrazia ne avrebbe approfittato, rafforzandosi, per diffondere informazione e partecipazione. Dimenticavano che anche Adolf Hitler la poteva usare, e sappiamo oggi che uno dei più atroci genocidi del XX secolo, quello avvenuto in Ruanda nel 1994, si può far risalire all’uso della radio da parte dei génocidaires hutu per suscitare paura e odio nei confronti dei tutsi.
Oggi dittatori e terroristi sono diventati provetti comunicatori digitali. Da tutte le indagini sul terrorismo islamista dei nostri giorni risulta che nella maggioranza dei casi è proprio attraverso la rete che avviene la captazione dei nuovi adepti e il loro indottrinamento. C’entrano ovviamente le moschee radicali – come nel caso specifico del Bangladesh, dove la penetrazione wahabita è stata negli ultimi anni particolarmente capillare, ben dotata com’è di fondi sauditi – ma oggi il messaggio islamista radicale si diffonde sempre più grazie al crescente uso di computer e cellulari anche nelle parti meno sviluppate del mondo.
Prepariamoci. Purtroppo siamo solo agli inizi di un’offensiva globale alla cui base vi è una spinta ideologica (una “teologia politica” in cui la politica è il fine e la teologia il mezzo) culturalmente arretrata ma che sa utilizzare tutti gli strumenti del mondo globalizzato in un disegno di illimitata violenza. Un’offensiva condotta contro di noi, ma soprattutto tesa ad affermarsi all’interno di una galassia musulmana storicamente plurale e variegata (fra sunnismo e sciismo, sufismo mistico e tentativi di dialogo con la modernità), ma che oggi subisce l’offensiva di un’ideologia che, all’insegna dell’utopia reazionaria del califfato, punta a terrorizzare ma soprattutto a costruire egemonia.
vivicentro/cronaca repubblica / Estremismo e terrorismo, le radici dell’odio ROBERTO TOSCANO
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