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l premier irlandese Enda Kenny si mostra ottimista dopo aver votato nel seggio di Castlebar, contea di Mayo (ansa)
Secondo gli exit poll la coalizione al governo è senza maggioranza, vincono Sinn Fein di Jerry Adams e Alleanza indipendente. Due partiti contrari ai sacrifici
LONDRA – La politica dei sacrifici è un prezzo troppo alto da pagare per saldare i debiti: anche se porta al più robusto boom economico d’Europa. Sembra questo il verdetto delle urne in Irlanda, un risultato che fornisce indicazioni per tutti, anche fuori dall’Isola di Smeraldo. Secondo gli exit-poll sulle elezioni di venerdì, la coalizione di governo ha perso la maggioranza: Fine Gale (centro-destra), il partito del primo ministro Enda Kenny, è sceso dal 36 al 26 percento e i loro alleati del Labour (centro-sinistra) sono addirittura crollati passando dal 19,5 al 7,8 per cento. Il partito centrista Fianna Fail, che era all’opposizione, rimane più o meno attestato sulle posizioni precedenti a quota 22 per cento. Guadagnano terreno, invece, soltanto i partiti che si sono battuti contro l’austerity: lo Sinn Fein di Jerry Adams (lo stesso partito che fa parte della coalizione di governo in Irlanda del Nord, la parte dell’isola rimasta alla Gran Bretagna dopo l’indipendenza di cent’anni fa), che cresce dal 9,9 al 15 per cento, e un nuovo partito di protesta, l’Alleanza Indipendente, che in pratica non esisteva alle elezioni di cinque anni fa e ora ha il 16 per cento. Completano il quadro due partitini, i verdi e i socialdemocratici, ciascuno con il 3 per cento.
Se ne ricava una situazione di apparente ingovernabilità. E’ probabile, se nel corso della giornata di oggi verranno confermate le indicazioni degli exit-poll, che l’unica possibilità sia un’ampia coalizione di governo, ma questa non è affatto facile sulla carta: i due maggiori partiti, Fine Gael e Fianna Fail, pur non essendo ideologicamente distanti (in sostanza sono entrambi moderati centristi), hanno dichiarato in campagna elettorale che non si uniranno a nessuna condizione, e del resto si detestano da un secolo, essendo stati protagonisti di un conflitto fratricida durante la guerra civile del 1916 che diede il via alla lotta per l’indipendenza irlandese dal Regno Unito, con una lunga catena di assassinii ed esecuzioni reciproche, culminati nella morte di Michael Collins, leader del Fine Gael e padre della rivolta contro Londra. In ogni caso una coalizione avrebbe bisogno anche di altri partner, perché i due maggiori partiti, da soli, rischiano di non avere una maggioranza. Un’ipotesi, anticipata da tempo, è un governo di minoranza sino a fine anno, quando potrebbero essere convocate nuove elezioni nella speranza di un risultato differente.
Il voto suona dunque come una sconfessione, perlomeno da una considerevole parte dell’elettorato, della politica che ha permesso all’Irlanda di rimettersi in piedi dopo la spaventosa crisi economica del 2008, quando la recessione globale portò il paese sull’orlo della bancarotta. Il salvataggio offerto da Unione Europea e Fondo Monetario Internazionale, con quasi 70 miliardi di euro di prestiti, ha avuto come condizione un programma di pesante austerità, con tagli alla spesa pubblica e aumenti fiscali. La ricetta è servita: l’anno scorso l’Irlanda è tornata ai livelli di crescita di prima della crisi, con il pil al 7 per cento, l’espansione più forte d’Europa, la disoccupazione dimezzata al 9 per cento e le multinazionali del web che accorrono a Dublino per farne il loro quartier generale nel vecchio continente. Ma la gente, come già avvenuto in altri paesi, ha mal gradito l’amara medicina e il governo ha perso la maggioranza. Ora rischia di perdere anche il potere.
*lastampa
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