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Editoriale Udinese – Napoli: Si stu sciore torna a Maggio

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l nostro editoriale post partita tra Udinese e Napoli non può essere incentrato solo al racconto di una gara di 90 minuti che ha visto due squadre pareggiare l’incontro.

Il nostro pensiero vola a quei 33 anni di attesa dall’ultimo scudetto e alla gioia di un popolo che rivive, dopo l’era Maradona, le emozioni di essere sul tetto dell’Italia calcistica.

Apriamo il nostro editoriale su Udinese – Napoli con un passaggio di una canzone che riecheggia nelle menti di tutti i napoletani: “Si stu sciore torna a Maggio, pure a Maggio je stongo ccà”.

Lo facciamo perchè la prima volta, gli azzurri conquistarono lo scudetto il 10 maggio 1987 dopo aver pareggiato in casa con la Fiorentina.

Fu la prima squadra del sud a vincere il tricolore.

Il 4 maggio 2023 Parthenope è ancora in giubilo: è Campione d’Italia dopo 33 anni.

4 Maggio 2023, ore 22.37, stadio Dacia Arena di Udine. Rosario Abisso di Palermo, direttore di gara, fischia tre volte: il Napoli è Campione d’Italia per la terza volta nella sua storia, a distanza di 33 anni dall’ultimo titolo.

Parthenope impazzisce, si riversa per strada, piange, urla, gode.

E con essa tutte le città della Provincia, in buona parte anche della Regione e tantissimi posti d’Italia – pur lontanissimi geograficamente dal capoluogo campano – ma popolati di tantissimi napoletani.

E’ un Carnevale di Rio.

Allo stadio Maradona, il club di De Laurentiis ha disposto il posizionamento di maxi-schermo lungo tutto il perimetro dell’impianto di Fuorigrotta, per permettere la visione della partita ai tifosi presenti, quasi a voler simulare che il Napoli stia giocando in casa.

E’ come stare in un’enorme sala di un cinema surreale che ribolle di passione in ogni lembo. La pellicola no, non è un banale intrattenimento.

E’ vita, è orgoglio, è appartenenza. Soprattutto è stupore, perché per le generazioni sbocciate dopo Italia ’90, tifose del Napoli, la parola Tricolore è un significato che non si conosce per niente.

Ero lì, sugli spalti, assiepato in Tribuna Posillipo ( come quasi mai mi è capitato prima, io da sempre avvezzo ai settori “di pancia” dell’ex stadio San Paolo).

Quando Abisso fischia e Decibel Bellini – speaker symbol del Napoli, intona il coro “Siamo noi, i campioni dell’Italia siamo noi”, non nego di essermi dato qualche schiaffo in faccia da solo per capacitarmi non fossi già totalmente ebbro.

Semplicemente perché, quel coro, ricordavo averlo udito intonare spessissimo dagli juventini, talvolta da interisti e milanisti e poi null’altro.

Quasi come gli altri se lo potessero solo sognare, quasi come a nessun’altro che non fosse nato strisciato fosse concesso appropriarsene.

E del resto, bisogna riavvolgere il nastro di 22 anni per trovare uno Scudetto non vinto dallo strapotere del nord.

Era la Roma del profeta in casa, Francesco Totti. Ma io avevo appena 4 anni e l’ho vista solo dai filmati su YouTube. I campioni dell’Italia siamo noi. Ma noi napoletani, però.

Mi parlo da solo e mi dico: Antò, ci pensi?

Mi scende giù qualche lacrima. Un poco mi vergogno, perché certi momenti preferisco viverli da solo, estraniato dal mondo. Il pudore di un giovane uomo che si commuove e non è che abbia tutto questo piacere a darlo a vedere.

Mi trattengo, più che altro mi imbambolo.

Quando ormai s’era capito che stava per succedere, mi ero promesso: “quando succederà, io voglio stare sugli spalti, non importa come e in quale settore”.

Volevo sentire sulla pelle l’odore acre di un fumogeno, esploso appena dopo essere diventato campione d’Italia. Volevo fumare lì l’ennesima sigaretta, dopo essere diventato campione d’Italia. Volevo veder sventolare le bandiere azzurre, dopo essere diventato campione d’Italia.

I ricordi vengono a bussare e torna alla mente tutto, tutto così in fretta. Mi ricordo di come e quando sono diventato tifoso del Napoli: vedendo mio padre che si incazzava davanti al televisore davanti ad una delle celebri telecronache di Gianluca Di Marzio, col glorioso Ciuccio finito malamente in serie C.

Ricordo la risalita lenta, la beffa della finale play-off persa ad Avellino e il secondo anno di fila in terza divisione che fu l’ennesimo cazzotto a una fede martoriata. Ricordo il secondo campionato di C, dominato in lungo e in largo e vinto a metà Aprile dopo un 2-0 casalingo al Perugia, col Pampa Sosa arrampicato sulla traversa sotto la curva A.

Ricordo la B e subito i sogni di gloria. Dovevamo puntare ai playoff, finimmo in serie A subito, dopo un finale al cardiopalma a Marassi: seconda promozione consecutiva e Napoli in massima serie a braccetto col Genoa e la Juve post-Calciopoli.

Me la ricordo, quella B. Sofferta, soffertissima. Non era un Napoli spettacolare nell’estetica e nel gioco, ma era una squadra terribilmente compatta e cattiva. Con un cuore gigante e tantissimi calciatori che, per la casacca azzurra, avrebbero letteralmente sputato sangue. Oltre al già citato Pampa Sosa, con affetto ricordo Ciccio Montervino, Gennaro Iezzo, Gianluca Grava, Emanuele Calaiò, Ruben Maldonado, Paolo Cannavaro e tanti altri impressi nella memoria del cuore.

Dagli anni della C, ricordo tutto del Napoli. Con una memoria fotografica che fa paura a me stesso. Date, risultati, avversari, reti.

Ricordo, in quell’anno di B, una partita in casa soffertissima contro il Rimini. Che squadra, quel Rimini. 1-0 per noi in mezzo alla trincea, merito di una prodezza di Roberto De Zerbi ( oggi uno degli allenatori italiani maggiormente sulla cresta dell’onda, pensa te). Ricordo quel matto di Gianluca Grava che strappò la bandierina del calcio d’angelo e si mise a sventolarla sotto la Curva B.

Rosario Abisso fischia tre volte e corre tutto velocissimo nella mente. Il ritorno in A, lo scetticismo. Pierpaolo Marino che scopre talenti in serie, zittendo gli scettici. Pocho Lavezzi e Marek Hamsik, su tutti. In mezzo i pur ottimi Blasi, Gargano e Zalayeta. L’Intertoto, con l’ottavo posto in A al primo anno, nel 2008.

Un secondo anno partito a razzo e finito malissimo: dodicesimo posto. Via Reja, arriva Donadoni. Ma la svolta arriva solo nell’Autunno del 2009, quando al buon Roberto si avvicenda Walter Mazzarri. E’ il Napoli che non muore mai, operaio ma terribilmente orgoglioso ed impavido. E’ il Napoli di Edinson Cavani, l’uomo da 104 goal in 3 anni.

E’ la Champion’s, per la prima volta. E che Champion’s. City, Bayern, Villareal nel girone e il Napoli che finisce agli ottavi lo stesso. Ci vorrà solo una super-rimonta del Chelsea per negare il sogno dei quarti, alla prima vera volta nell’Europa che conta.

Ricordo il 2012, la Coppa Italia, il primo trofeo dell’era De Laurentiis, un 2-0 memorabile contro la super Juve di Antonio Conte.  Il bis due anni dopo, sempre all’Olimpico di Roma, stavolta contro la Fiorentina. E’ la tragica notte del compianto Ciro Esposito e la pagine triste di Genny a’ carogna, sbattuto in prima pagina nello sport preferito, a quei tempi, dalle reti nazionali: lo sputtaNapoli.

2014 e sognavamo già, perché dopo Walterone Mazzarri era arrivato Rafa Benitez, manager dal respiro internazionale. Che grazie al suo carisma era riuscito a portare a Napoli gente come Pepe Reina, Josè Callejon, Pipa Higuain e Raul Albiol. Campioni che probabilmente, senza la garanzia di Rafa, a Napoli non avremmo mai visto.

Campioni sbocciati col tempo, che divennero, dopo la Supercoppa vinta ai rigori a Doha nel Dicembre 2014 sempre contro la Juve ( secondo ed ultimo trofeo di Benitez dopo la Coppa Italia nel Maggio precedente), l’ossatura che di lì a poco farà grande il Napoli di Maurizio Sarri. Con il Pipita Higuain, 36 goal nel 2015/2016, che abdicherà la causa azzurra per vestire il bianconero che ci sta meno simpatico.

Un altro toscano, con alle spalle una sola stagione in A con l’Empoli e decenni di gavetta nelle serie minori. Sembra un azzardo, sarà la storia: 3 anni straordinari, culminati nell’ultimo, memorabile, finito con un secondo posto a 91 punti nel 2018 e tantissime ombre su un Tricolore che sarebbe già dovuto arrivare a Napoli in quel tempo ma che, per tanti e stranissimi incidenti di percorso, si fermò in albergo e arrivò alla corte della Vecchia Signora.

A fine anno, Sarri che va via. Arriva Ancelotti, la piazza si infiamma ma sarà solo una suggestione insipida. Re Carlo, a Napoli, fallisce la missione e il Napoli si ritrova affidato ad un volenteroso quanto inesperto Gennaro Gattuso, che pur con tutti i suoi limiti riuscirà comunque a portare un altro trofeo nel 2020, con un’altra Coppa Italia vinta, ancora ai rigori, ancora contro la Juve.

Poi la Champion’s mancata all’ultima giornata, 1-1 in casa contro l’Hellas Verona. E’ il Maggio del 2021, il risultato costa a Gattuso la panchina: arriva Spalletti, l’esperto, il sagace.

Un primo anno di pur ottimo ambientamento, con un terzo posto indiscutibile che significa Champion’s League e lascia comunque in bocca l’amara sensazione che, il Tricolore, sarebbe potuto essere pure alla portata, con un po’ di coraggio in più.

Lo pensano tanti napoletani, lo dirà a telecamere accese anche Dries Mertens: “è l’anno dove porto via più rimpianti, le altre non erano più forti di noi”. Un triste commiato. Ciro, cuore di Napoli, lascia a fine anno. Con lui capitan Insigne, Fabian Ruiz, Koulibaly e Ospina.

Sembra una Caporetto, sarà la rinascita. Ma, appena 1 anno fa, nessuno c’avrebbe scommesso un centesimo.

Il Napoli si rivoluziona in modo netto, l’entusiasmo è ai minimi storici. Arrivano Kvara, Kim, Olivera e Ostigard. I primi 3 praticamente sconosciuti, l’ultimo reduce dal Genoa fresco retrocesso in serie B. L’esperto Sirigu non scalda i cuori. Poi, il mercato diventa pirotecnico nel finale: Raspadori, Ndombelè e Simeone sono la prova che il Napoli vuol far sul serio, almeno per lottare seriamente per un piazzamento Champion’s.

Nessuno, ma proprio nessuno, penserebbe mai a qualcosa di più. Sulla carta, le rose di Inter e Juve paiono più attrezzate e certamente più zeppe di nomi altisonanti. C’è poi pur sempre il Milan, campione d’Italia uscente e la Roma che ha acceso la piazza col colpo Dybala e quella vecchia volpe di Mourinho.

Il campo dirà cose diverse, diversissime. Il Napoli intraprende una cavalcata poderosa che lascia di stucco ogn’altra rivale. Kvara è un fenomeno, Kim un muro spesso invalicabile.

Incredibile ma vero: i campioni andati via l’estate prima, per quanto sempre impressi nei cuori, sul campo sono dimenticati alla svelta.

Sempre più primo, sempre più solo, sempre più Capolista. Le vittorie, i filotti, le azioni da manuale del calcio.

Il 2-1 a San Siro, senza Osihmen. L’1-0 all’Olimpico di Roma sponda giallorossa, grazie ad Osihmen. La vittoria a Bergamo, nel segno di Elmas. Il 5-1 alla Juve, umiliata a Fuorigrotta.

Quando ho capito che l’avremmo vinto? Forse col 2-1 di fine Gennaio alla Roma.

L’ho capito negli occhi del Cholo Simeone, nella fame che tutti i componenti della rosa hanno dimostrato di avere, nella forza incredibile delle loro motivazioni.

E’ lo Scudetto di Victor, Kvicha, Kim ( urlato allo stadio a ripetizione, tipo macchinetta: “Kim, Kim, Kim, Kim”). Di Alex Meret, che in estate stava andando allo Spezia ed oggi ritorna alla ribalta come uno dei migliori portieri italiani.

E’ lo scudetto di capitan Di Lorenzo, che dopo l’addio di Insigne si carica una responsabilità enorme sul braccio e dimostra di esserne all’altezza. Del professor Mario Rui, vituperato ma efficacissimo. Di Amin, del mago Stani Lobotka, di  Frank mille polmoni. Delle corse di Politano, dei ripiegamenti di Lozano. Della classe, cristallina, di Zielinski, che dopo il goal di Raspadori a Torino si stende sul prato perché capisce che ce l’ha fatta.

Il giorno dopo guardo la Gazzetta, penso a uno scherzo o a un sogno allucinato.

Ma il 1 Aprile era più di un mese fa. Oggi è Maggio, è il 5 Maggio.

E’ il mese in cui “tornano li rrose”, come dice un capolavoro della musica partenopea.

“Tu mme lasse, io conto ll’ore

Chisà quanno turnarraje”.

Si turnato. Abbracciami. Per me che ti ho visto sempre sul petto degli altri, è tutta un’altra storia.


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