Wade Wilson è un ex agente dei corpi speciali. Malato terminale, accetta una dolorosa cura sperimentale: essa, pur salvandolo e dandogli dei poteri speciali, lo deturpa orribilmente. Si trasforma in Deadpool. Vuole costringere il suo salvatore a ridargli volto e identità.
“DEADPOOL” (Critica di Patricia Santarossa) TRAILER
I
Marvel Comics sono un universo senza fondo: i suoi personaggi sono talmente tanti; essi si generano e si combinano coi già esistenti sviluppandone le potenzialità narrative in maniera esponenziale: come lo scorrere di un fiume in piena. Come il Multiverso della religione induista. Si differenzia dall’altro universo “concorrente” della D.C.Comics, per una maggiore sperimentalità pianificata, per così dire, industrialmente.
Mentre gli exploits autorali di Batman (DC Comics), ad esempio, appartengono ad importanti e geniali autori contemporanei come Alan Moore/Brian Bolland che fanno riferimento a sé, non immediatamente alla casa DC; e a cui il visionario Christopehr Nolan si è ispirato per la sua nuova trilogia di film. Deadpool, come i Guardiani della Galassia, Ant Man, fanno parte del còté ironico della Marvel: il cui antesignano e certo più popolare è l’Uomo Ragno; che, almeno sulla carta, è pieno di frizzi e di sfottò spesso autoironici.
Questi spunti sono stati più evidenti nella prima trilogia, diretta da Sam Raimi: meno nei successivi. Ma Deadpool ha delle caratteristiche più marcate in tal senso: anzi, proprio da stravolgimento. Egli è nato nel 91, dalle idee di Fabian Nicieza e dai disegni di Rob Liefeld e fin dall’inizio è un chiacchierone, un po’ sullo sbruffunciello, sessista (anche se nel film questo aspetto è più castigato), la sua formazione è a pane e serie tv, irriverente, fuori dalle regole comunemente seguite. Segue comunque un codice comportamentale a suo modo etico: anche se lo fa con numerose e spesso rilevanti eccezioni, e di cui magari non si compiace. Ma ha una sua propria caratteristica che lo differenzia in modalità artistico-progettuale e a mio avviso molto raffinata da tutti gli altri personaggi sia Marvel che DC: è l’unico che dialoga direttamente col suo pubblico di lettori, sia sulla carta che al cinema. Egli “sa” di essere un eroe disegnato.
Ne è consapevole e “ci ragiona”: certamente non in modalità saputamente colta; ma sempre con quel fare scanzonato e impunito; e sempre senza distrarsi dalle sue varie missions narrative. Soprattutto, senza interromperne il ritmo e l’efficacia cinematografiche. Però di fatto tutto ciò lo pone, piaccia o non piaccia, in un livello letterario di elevata metatestualità semiotica, direbbe il compianto Umberto Eco.
Il protagonista del film (USA,16) è Ryan Reynolds: ma ne è stato anche produttore. Egli ha dichiarato che proprio questa atipicità del personaggio l’ha affascinato e per proteggerla dai “cervelloni” degli Studios l’ha prodotto: quelli l’avrebbero trasformato in ulteriore “eroe con tutina”.
Suo complice è stato il regista Tim Miller, che viene dalla Blur Company, specializzata in Effetti Speciali. Insieme ai due sceneggiatori (Paul Wernick e Rhett Liefeld), il regista ha molto ben definito, fin dalle primissime immagini del film, il senso dell’operazione: l’ha padroneggiato con una sicurezza autorale, senza alcun vezzo o prosopopea d’artista pippeur compiaciuto. Ciò l’ha reso spumeggiante, accattivante e originale. Ha usato non solo effetti fisici (SFX), ma soprattutto effetti visuali (VFX): addirittura c’è un personaggio che è stato realizzato e concepito interamente così.
Lo stile adottato mette insieme fin dall’inizio tecniche diverse: come il fermo immagine (lo stop motion dei cartoni, anche se in live action), il ralenti e il flashback: sono tutte tecniche che rimandano con intelligenza alla provenienza disegnata del testo. Ma il miracolo della loro efficacia “totale” è operato dal montaggio. Che è sempre impeccabile: Julian Clarke, canadese, non ancora quarantenne, con una vasta esperienza professionale, ha saputo renderlo vertiginoso e scoppiettante, senza perdere il senso narrativo imposto. Missione difficile, perché si tratta di dare in più, in mezzo tutto quel rutilante insieme, lo spazio dovuto ai siparietti ironici, le “allocuzioni” al pubblico in sala, senza stemperare la forza e l’impatto dell’azione: le pause devono essere molto ben calibrate.
E’ chiaro che molto si deve al carisma, la simpatia e consapevolezza intellettuale dell’attore protagonista, che ha perfettamente e fisicamente introiettato la sua complessità. Oltre a tutte le eccellenti professionalità tecnico- artistiche, mi ha molto colpito la scenografia, la sua generale e mirata organizzazione. Affidata al production designer Sean Haworth, ha saputo esprimere quell’atmosfera un po’ ingrigita, da periferie urbane, di gente e luoghi comuni, se non proprio di sfigati (nerds), che caratterizza spesso l’identità del mondo Marvel e dei suoi eroi. Così spesso antieroi.
Patricia Santarossa
Lascia un commento