David Ben Gurion nel suo kibbutz di Sde Boker in una foto del 1969
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orna alla luce un documento unico per la storia dello Stato Ebraico: l’intervista realizzata al fondatore David Ben Gurion del 1968 in cui spiega la sua visione del futuro.
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Tra la pace e i territori scelgo la pace ARIELA PIATTELLI
Una lunga intervista filmata del 1968, ritrovata per caso, è diventata un documentario premiato al Jerusalem Film Festival: un ritratto intimo dell’anziano statista, che spiega la sua visione sul futuro di Israele
Questo è uno degli aneddoti cruciali nella vita di Ben Gurion, una lezione che gli cambiò l’esistenza e che avrebbe raccontato nel ’68 in un lungo colloquio inedito, rimasto sepolto, nel silenzio di un archivio, per quasi cinquant’anni. Le sei ore di intervista, che Ben Gurion rilasciò al giovane americano Clinton Bailey, hanno visto la luce grazie al regista Yariv Mozer e alla produttrice Yael Perlov: lavoravano all’archivio Spielberg di Gerusalemme al restauro di un film, quando per caso hanno scoperto la pellicola.
Dal materiale ritrovato hanno tratto un documentario, Ben Gurion, epilogue, premiato al Jerusalem Film Festival 2016. Il ritratto mai visto è quello intimo di un padre della patria nell’ultima stagione della vita, che racconta la storia, il pensiero e la visione sul futuro d’Israele, un paese ancora in costruzione, citando personaggi, profeti, la Torah, tutto ciò che aveva studiato da bambino in Polonia e che non aveva mai abbandonato.
Bailey lo intervistò nella sua casa di Sde Boker. La macchina da presa è rapita dalla vita spartana dello statista, in abiti informali, che pianta gli alberi e pranza nella mensa, e dai suoi scaffali traboccanti di libri. «Nel nostro kibbutz ho chiesto di essere chiamato David, non Ben Gurion» dice. Erano trascorsi soltanto quattro mesi dalla morte della moglie Paula. «Adesso sono solo, non posso farci nulla. Mi sento un uomo a metà, ma faccio quel che posso».
Pragmatico, rude e di poche parole, mai una più del necessario, nel film Ben Gurion riflette l’atteggiamento tipico degli ashkenaziti, che non si perdono in fronzoli perché troppo impegnati nella sostanza delle cose. Il suo racconto s’inizia con l’arrivo in Palestina nel 1906: «C’era l’anarchia nel paese. I villaggi si facevano la guerra l’uno contro l’altro». Il giovane David trova il caos, lavora la terra, e le difficili condizioni lo mettono a dura prova. Contrae anche la malaria. A suo padre che gli chiede di tornare a casa risponde «Abba [papà], io non lascerò questo posto».
Ben Gurion immaginava il futuro dello Stato ebraico composto da città, ognuna con una sua identità, nella convivenza pacifica e democratica. La sua visione era già chiara: «un libero e democratico Commonwealth in Palestina». Nel colloquio lo statista ricorda i momenti storici in cui fu impopolare, come quando nel ’51 accettò dalla Germania di Adenauer l’indennizzo per le vittime della Shoah. «Certamente fu una decisione impopolare. Ma credo che pensare che tutti i tedeschi erano nazisti sia ingiusto. Non è ebraico pensarla così».
Rileggendo il passato, Ben Gurion spiega che poco prima della Shoah sarebbe stato impossibile mettere in salvo gli ebrei: «Non puoi salvare qualcuno se non sai quale sarà il suo destino. Quelli che accusano gli ebrei di non essersi difesi sbagliano. Loro erano impotenti». Ma lui, come Elie Wiesel, non perdonava ai leader dei paesi che combattevano Hitler di non essere intervenuti per fermare lo sterminio: «Churchill era un buon amico del sionismo, e aveva ragione nel pensare che il suo compito fosse sconfiggere Hitler. Loro però avrebbero potuto salvare molti ebrei. Gli si chiese di bombardare Auschwitz, Treblinka, avrebbero potuto farlo. Ma non lo hanno fatto…».
Ben Gurion, che aveva dichiarato l’indipendenza dello Stato d’Israele, credeva nella costruzione del futuro fondato sulla continuità dell’operato delle persone. «Da solo non avrei potuto fare nulla. Non è una cosa che dipende da una persona. Ci sono cose che non possono essere fatte da un solo uomo, come la teoria della relatività». Era la lezione di umiltà di Albert Einstein: lo scienziato gli aveva spiegato che la formulazione della teoria era stata possibile anche grazie agli esperimenti di chi lo aveva preceduto. «Se noi non avessimo avuto i pionieri della prima generazione, allora non saremmo stati capaci di costruire tutto questo».
Sul futuro d’Israele, il vecchio statista poneva, come valori assoluti che dovevano guidare gli israeliani, la sicurezza, la pace e il rispetto dell’altro. «Le virtù che ci hanno chiesto i nostri profeti sono la verità, aiutare chi ha bisogno e amare gli altri come noi stessi». Le guerre che Israele aveva combattuto e i territori conquistati erano per lui destinati alla sicurezza del paese. Pensava ci sarebbero state altre guerre contro gli arabi, e avrebbe sacrificato parte della terra per ottenere la pace: «Se potessi scegliere tra la pace e i territori conquistati lo scorso anno [nel ’67], sceglierei la pace. Rinuncerei a quei territori, a eccezione di Gerusalemme e delle alture del Golan. Ho sempre avuto paura per lo Stato. Non solo adesso. Lo Stato non esiste ancora. Questo è solo l’inizio…».
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