Riporto un profondo e toccante post su Fb di una amica, che ha la madre molto malata, dal quale traspare sconfortante come la doverosa solidarietà pubblica, ma anche il diritto, in una società civile, ad una senilità dignitosa, siano stati come rimossi.
Le parole, anzi i fatti qui di seguito, sono notoriamente quasi quotidiani e un po’ ovunque al Sud. Siamo di tutta evidenza in balia di un misantropo sistema pubblico-politico-istituzionale-sociale sempre più cinico, sprezzante, arrogante, clientelare, iniquo e solo propagandistico, avvitato nel proprio ionismo, ingordigia e corruzione intellettuale, forzosa e di fatto.
Le parole della mia amica:
“Ormai sono diversi giorni che vivo come trasognata. C’è una serie di esperienze che sovrastano le altre e sono legate alla necessità di assistere mia madre. Mentre me ne stavo lì, nella notte, in piedi accanto alla barella di mia madre, pensavo amaramente che ci sono molti modi diversi di svolgere il lavoro di cura.
Per carità, tutti legali, niente da denunciare. Ma ci sono differenze abissali tra un medico e l’altro, tra un infermiere e l’altro. Il sorriso, la carezza, la parola gentile, non sono nel mansionario. Lo ripeto: per carità, niente di non legale, niente da denunciare. Fanno turni massacranti, sono forse pochi, certo sono stanchi, provati. Di alcuni di loro apprezzo la gentilezza, il calore umano. Non posso dirlo di tutti.
E se, una volta vecchia e ospedalizzata, mi sentissi di peso e dovessi percepirmi come un impaccio per la società, manipolata e violata nel corpo e nella mia dignità, forse cercherei di raggiungere la finestra più vicina al letto di ospedale e mi lascerei andare, come Tosca che non può più vivere senza il suo Mario e si affaccia giù, dagli spalti del sinistro Castel sant’Angelo, per volare verso la pace e il silenzio.
Ora me ne vergogno, ma ho pensato anche cose così, in certi momenti. Cerco di cacciare il pensiero, mi dico, allora, che la nostra epoca deve essere la più cinica della Storia. La scienza e la medicina hanno fatto progressi enormi per allungare la vita delle persone e incrementare il loro benessere psicofisico, eppure la visione aziendale dell’esistenza che prende sempre più piede sembra quasi annullare tutte queste conquiste. Lo fa suggerendo che sarebbe meglio, per il bene della collettività, che non si vivesse troppo a lungo una volta in pensione, che non si pesasse sul bilancio generale, che non si togliesse spazio ai giovani e abusasse del loro tempo o dei letti disponibili in una corsia di ospedale.
A qualcosa del genere certamente pensava mia madre, nelle 24 ore passate nel corridoio di un ospedale del Sud, mentre in barella aspettava che si liberasse un letto. Un letto ottenuto, magari, con le dimissioni un po’ troppo sollecite di qualche altro. Sorte che di certo sarebbe toccata anche a lei, dopo avere usufruito per un po’ del letto agognato, perché così mi pare che vadano le cose, ora.
Quella stessa notte, infatti, nel corridoio del pronto soccorso, le persone a dormire in barella erano 12; vestite e con le scarpe, coperte dal lenzuolo verde scuro, con la luce accesa sopra le loro teste e il via vai delle nuove urgenze. Lo so, a casa si guarisce prima ed è anche per il bene del paziente che si vuole dimetterlo presto assicurando cure domiciliari; ma c’è caso e caso e bisogna vagliare, riflettere…
So che in situazioni così angoscianti bisogna fare degli intervalli, sia pure piccoli; cioè che bisogna anche staccare, con la mente e con il corpo, se si vuole essere efficaci nell’assistere e nel programmare le cose giuste, ma non ci riesco, l’ansia mi assale. Vorrei la forza di sopportare quest’epoca ipocrita e paradossale del falso progresso con i suoi miti da nulla, con le sue fanfare bugiarde, con le sue luci ammiccanti. Non vedo l’ora che mia madre torni a casa.
Non è colpa delle persone, dei medici o delle infermiere: è piuttosto qualcosa che si respira nell’aria e che viene da fuori; come una sorta di disempatia degli ambienti data da regole, direttive e protocolli applicati rigidamente. Azienda e umanità non appartengono, no, ad aree semantiche compatibili“.
A
dduso Sebastiano
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