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Castellammare di Stabia

Cassazione: le chat  valgono come fonte di prova in giudizio

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Verba volant, scripta manent, dicevano i latini. Le parole vanno via, ma ciò che si scrive rimane. E fa prova. A dirlo sono gli stessi giudici che accordano valore alle conversazioni via chat e, in particolare, via WhatsApp. Così, occhio a ciò che scrivi sul telefonino perché «potrà essere usato contro di te». Un uomo ha recentemente utilizzate fruttuosamente in giudizio le chat dell’amante.

Anche le chat sui social, nel caso specifico su Whats App, possono fare piena prova in giudizio e ormai sul punto la giurisprudenza non sembra mostrare più dubbi

La chat su WhatsApp fa prova

D

a ultimo, ad esempio, il Tribunale di Ravenna, con la sentenza numero 231/2017, ha condannato una donna a restituire all’ex amante i soldi che questi le aveva prestato per comprare un’auto proprio basandosi sul contenuto delle conversazioni intrattenute tramite chat e depositate agli atti.

Nei messaggini, infatti, la donna si era impegnata a restituire le somme all’uomo con il quale all’epoca intratteneva una relazione clandestina, versando delle rate mensili di 200 euro e offrendo servizi di pulizia domestica.

Tale circostanza, per i giudici, è sufficiente a escludere inequivocabilmente che le somme per l’acquisto del veicolo siano state corrisposte come atto di liberalità. Oltretutto, posto che i due erano stati solo amanti per un determinato periodo e che l’uomo ha una compagna e probabilmente anche la donna ha un partner, per i giudici non si comprende a quali regole del costume sociale corrispondessero le elargizioni.

Cassazione: messaggi, fonte di prova in giudizio

Come si è detto, la circostanza che gli sms possano costituire un’utile fonte di prova in giudizio è un principio che è ormai consolidato nelle aule di giustizia, suffragato anche dall’avallo dato da alcune sentenze della Cassazione.

Tra le più recenti, si pensi ad esempio alla pronuncia numero 5510 del 6 marzo 2017, con la quale i giudici hanno ritenuto i messaggini dell’amante del marito come una prova del tradimento commesso da quest’ultimo, idonea a giustificare l’addebito della separazione a carico del coniuge fedifrago.

Occhio dunque a ciò che si scrive su WhatsApp perché le chat restano in memoria e, come anche le registrazioni di conversazioni, fanno piena prova davanti al giudice. In una eventuale causa non ci sarà neanche bisogno di “sequestrare” lo smartphone che potrà semplicemente essere sottoposto a una perizia di un tecnico nominato dal giudice affinché valuti che il testo non abbia alterazioni. E a tutto voler concedere è sempre possibile, in caso di reati tramite messaggistica, sporgere denuncia mostrando ai carabinieri il display del telefonino. La loro asseverazione funge da piena prova perché a confermarlo è un pubblico ufficiale. Diversamente, se si volesse resettare il telefono, cancellare il messaggio o anche se si ha solo il timore di perdere l’apparecchio si potrebbe andare da un notaio che, dopo aver stampato lo screenshot con la schermata della conversazione, potrebbe attestare che si tratta di un documento conforme all’originale a lui esibito.

Valeria Zeppilli

Avv. Valeria Zeppilli 
Laureata a pieni voti in giurisprudenza presso la Luiss ‘Guido Carli’ di Roma con una tesi in Diritto comunitario del lavoro. Attualmente svolge la professione di Avvocato ed è dottoranda di ricerca in Scienze giuridiche – Diritto del lavoro presso l’Università ‘G. D’Annunzio’ di Chieti – Pescara
/studiocataldi  /LLpT

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