Come osserva Fabio Martini, il Campidoglio resta isolato perché l’attuale classe politica non riesce a esercitare il potere. La resa dei conti nel Movimento Cinque Stelle è arrivata: dal palco di Nettuno, Beppe Grillo difende la sindaca Raggi (“Va avanti”) e commissaria Di Maio, costretto a scusarsi per aver sottovalutato il caso Muraro. Di Battista si prende la scena con un comizio da leader accolto dall’entusiasmo della piazza. L’ex catechista col mito di Che Guevara esce rafforzato dal terremoto grillino nella capitale.
La dissoluzione dei poteri lungo il Tevere
I
nchiodata da settimane in una selezione innaturale di assessori, super-burocrati, manager. Certo, dopo giorni di silenzio, Virginia Raggi ha rialzato la testa, ma ora è destinata a restare col fiato sospeso, nella speranza che le indagini della magistratura non la costringano a nuove emorragie, a nuovi forfait.
E quanto al «sistema», indicato da Beppe Grillo come il promotore di un mega-complotto, stavolta i «poteri forti» della Capitale – sempre così impiccioni – sembrano essersi limitati al «minimo sindacale». Certo, sperano che i grillini falliscano il prima possibile, ma stavolta il «sistema» sta accompagnando la crisi, non l’ha provocata. Anche perché i nuovi governanti della Capitale, per il momento, stanno facendo tutto da soli.
Per i «poteri forti» romani può valere una battuta di Jap Gambardella nella «Grande bellezza» di Paolo Sorrentino: «Io non volevo semplicemente partecipare alle feste, volevo avere il potere di farle fallire!». Per decenni i potenti della Capitale – i «palazzinari», gli imprenditori della «monnezza», i notabili dell’enorme indotto della politica – hanno partecipato a tante, succulente «feste», ma solo ogni tanto hanno contribuito a far fallire qualche «festicciola».
Perché a Roma il potere politico è sempre stato fortissimo. Nella Capitale ha sempre governato il «partito romano»: quell’intreccio tra un potere pubblico – solido e paternalistico sin dai tempi del Papa Re – e una miriade di interessi privati, sempre garantiti. Quelli che lo scrittore Alberto Arbasino definì 40 anni fa «una quantità di piccoli ambienti, minuscoli clan». E certi caratteri cittadini sono di lunga durata. Quando i Savoia «conquistano» Roma scoprono che nella città dei Papi lo Stato è il protagonista assoluto: per secoli la pace alimentare era stata garantita dalla farina e dalla carne approvvigionate dall’efficiente sistema della Pontificia Annona e della Grascia.
Un imprinting che non si è più perso, quello della mano pubblica sempre intrecciatissima agli interessi privati. Anche se i sindaci che hanno lasciato un’impronta sulla città – a cominciare dal mitico Ernesto Nathan poco prima della Grande Guerra – sono quelli che hanno saputo trovare un equilibrio tra interesse pubblico prevalente e un interesse privato ricondotto dentro un disegno della città. Un equilibrio che negli ultimi anni era saltato: la destra ex missina – alla prima e ultima prova di governo – ha inteso il primato della politica come primato della clientela; il professor Ignazio Marino ha sfidato i «poteri forti» senza disporre di un’adeguata deterrenza politica.
I Cinque Stelle a Roma hanno vinto sulle macerie della politica e Virginia Raggi ha ricevuto un mandato popolare molto forte, su un programma di discontinuità. Nel fare squadra la sindaca è incappata in alcune scelte che segnalano la presenza della «vecchia» Roma, quella della consociazione, dei poteri intrecciati. Ma ora, chiamata alla prova del governo, l’anti-politica è alla prova più difficile: ripristinare tutto intero il primato della politica.
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