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Castellammare di Stabia

Calcagno e Pollicardo: “Noi quattro sempre insieme, picchiati e lasciati senza cibo. Ci siamo liberati da soli”

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alcagno e Pollicardo

ROMA . Ora c’è una prima verità. Verbalizzata in sette ore di testimonianza di fronte al pm Sergio Colaiocco e ai carabinieri del Ros. Ed è una verità nitida. Non intossicata dalla manipolazione delle fonti libiche. Gino Pollicardo, Filippo Calcagno, Salvatore Failla e Fausto Piano hanno vissuto per otto mesi in due case prigione. La prima, in estate, non lontana dal punto in cui erano stati sequestrati. La seconda, in inverno, alla periferia di Sabrata. Non sono mai stati divisi. Fino a mercoledì scorso. Quando Salvatore e Fausto sono andati incontro al loro destino. I quattro operai sono stati picchiati e malnutriti. Il loro sequestro, gestito da una banda di predoni, non ha avuto né le stimmate, né il sostegno dell’Is. Piuttosto ha goduto delle complicità della città, Sabrata.

Ecco il racconto di Gino e Filippo, dunque.

LA MACCHINA DELLA BONATTI

I quattro operai della Bonatti vengono sequestrati il 20 luglio dello scorso anno. Rientrano da una vacanza in Italia e atterrano all’aeroporto di Gerba, in Tunisia. Li attende una macchina con un autista libico che deve riportarli allo stabilimento Eni di Mellitah, dove lavorano. “È l’auto messa a disposizione dall’azienda”, spiegano. Come era “prassi per i trasferimenti”, aggiungono. Nonostante il divieto del governo italiano degli spostamenti via terra. La macchina viene fermata poco dopo aver attraversato il confine libico. Affiancata in un check-point mobile da uomini armati che danno inizio all’incubo.

IN TUTA E PICCHIATI

La prigionia, già nel suo primo luogo di detenzione, da luglio a novembre ha routine feroci. Che, per 8 mesi, non cambieranno. “Ci picchiavano”. “Calci, pugni. In qualche occasione con il calcio del fucile”. I prigionieri vengono vestiti di tute. Non quelle arancioni dei morituri del Califatto. Ma quelle della detenzione a ogni latitudine. Gino e Filippo quelle del Real Madrid e del Barcellona. Salvatore e Fausto quelle di due club francesi. I quattro non possono radersi. Sono liberi da catene, ma relegati in unico spazio. Al chiuso. Giorno e notte. Indossano cappucci ogni qualvolta incrociano i loro carcerieri che, non sempre, una volta al giorno, gli concedono il beneficio di un bugliolo per i loro bisogni e di un pasto. Pane raffermo, pasta, legumi. Mai carne.

NON UCCIDIAMO GLI INFEDELI”

Gino e Filippo non sono in grado di dire con esattezza quanti siano i loro carcerieri, né chi ne sia il capo. Ne contano “quattro, cinque” , indovinando il numero dalle diverse voci che ascoltano da sotto i cappucci. E dalle poche volte in cui hanno occasione di vederli (anche loro incappucciati). Quando si tratta di registrare a volto scoperto gli audio, scattare le foto e quindi girare il video che devono offrire la prova della loro esistenza in vita. I 4 ostaggi non parlano arabo e per comunicare con i loro aguzzini si arrangiano con un rudimentale francese. Sufficiente a capire che non sono nella mani dell’Is. Non li sentono infatti mai pregare. Non notano i drappi neri del Califfato sul “set” della loro prigionia. Soprattutto, raccontano, “quando li imploriamo di non venderci, loro ci rassicurano e spiegano che sono bravi musulmani e quindi non uccidono gli infedeli” .

LA CASA BUIA DI SABRATA

In inverno, la seconda e ultima prigione è alla periferia di Sabrata. Quella da dove, all’alba del 4 marzo, Gino e Filippo “evaderanno” dopo essere stati abbandonati. Nella stanza della casa in cui sono confinati non filtra la luce del sole. Giorno e notte hanno un unico colore. Il nero del buio. La sola fonte di illuminazione è una lampadina al soffitto. Il solo sollievo per l’anchilosi delle gambe sono i pochi passi verso il bagno dell’abitazione che possono raggiungere solo dopo aver calzato il cappuccio e battuto sulla porta che separa la stanza dal resto della casa.

IL COMMIATO

Mercoledì 2 marzo, nella stanza prigione di Sabrata, Gino e Filippo salutano Salvatore e Fausto. E non sanno che non li rivedranno mai più (la loro morte gli è stata comunicata solo all’alba di ieri da psicologi dopo il loro arrivo a Ciampino). I carcerieri li prelevano senza dare alcuna spiegazione e contemporaneamente smontano la casa imballando casse per spostarsi verso quella terza casa, 35 chilometri a sud-est di Sabrata, dove troveranno la morte. La banda, verosimilmente, ha pianificato un terzo trasferimento. Forse quello conclusivo, se è vero che la trattativa per la liberazione è entrata nel suo ultimo miglio. E per ragioni comprensibili ha deciso di affrontare il rischio dello spostamento del “carico” dividendolo. Salvo poi ritornare a Sabrata per recuperare Salvatore e Fausto. O, forse – è un’altra delle ipotesi, ma la più remota – ha alla fine deciso di cedere due degli ostaggi.

Nella notte tra mercoledì 2 e giovedì 3, i sette uomini della banda vengono intercettati e uccisi con i due ostaggi. Forse per un gioco del caso. Forse perché qualcuno li ha venduti o ha deciso di liberarsene. Gino e Filippo restano soli nell’oscurità della loro stanza. “Dopo un giorno intero senza cibo, senza possibilità di andare al bagno, ci siamo resi conto che eravamo stati abbandonati. E, all’alba del 4, abbiamo sfondato la porta. Poi, una volta in strada, la gente ci ha consegnato alla milizia”. Quindi, la prima foto e quel biglietto con la data sbagliata del 5 marzo su cui fiorirà una cervellotica ridda di ipotesi. Che ignora le ragioni di chi, da otto mesi, viveva nell’aldilà. “Avevamo tenuto il conto dei giorni, ma avevamo dimenticato che il 2016 è anno bisestile. Avevamo saltato il 29 febbraio. Per noi era il 5 marzo”.

  • di CARLO BONINI / lastampa

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