Un libro appena uscito racconta come la burocrazia riesca sempre a battere la politica nella difesa dello status quo. Un suo capitolo descrive come il “rapporto Giavazzi” del 2012 – che voleva trasformare 10 miliardi di sussidi in riduzioni di imposta per tutte le imprese – sia stato insabbiato da funzionari ministeriali.
Quei burocrati che frenano l’Italia
Come ha fatto la burocrazia a diventare un centro di potere capace di ostacolare le riforme e lo sviluppo dell’Italia? Lo spiegano Francesco Giavazzi e Giorgio Barbieri ne “I signori del tempo perso”, di cui pubblichiamo uno stralcio.
Burocrati, signori del tempo perso
C
ome ha fatto la burocrazia a sostituirsi alla politica e a diventare un centro di potere capace di ostacolare le riforme e lo sviluppo dell’Italia? Lo spieghiamo nel libro, appena uscito per Longanesi, “I signori del tempo perso. I burocrati che frenano l’Italia e come provare a sconfiggerli”, in cui proponiamo anche tre possibili vie d’uscita per limitare potere e privilegi dei burocrati.
Di seguito, le pagine che raccontano le strategie utilizzate dagli alti funzionari del ministero dello Sviluppo economico per far fallire il “rapporto Giavazzi”, commissionato nel 2012 dall’allora presidente del Consiglio Mario Monti per ridurre i sussidi pubblici alle imprese.
Perché è tanto difficile tagliare la spesa pubblica?
Negli Stati Uniti ha fatto molto discutere la scoperta del quotidiano Washington Post, secondo il quale il Pentagono ha nascosto all’opinione pubblica uno studio interno che aveva individuato 125 miliardi di dollari di sprechi amministrativi, nel timore che il Congresso lo utilizzasse come pretesto per tagliare i finanziamenti alla Difesa – sebbene fosse stato proprio il Pentagono a chiedere agli autori dello studio di verificare come rendere più efficiente la macchina burocratica con l’obiettivo di reinvestire i risparmi in attività di combattimento.
Recuperare un po’ di queste risorse richiederebbe, secondo lo studio, di ridurre la mole e lo strapotere della burocrazia ministeriale attraverso «politiche di contrasto e pensionamenti anticipati», limitando l’impiego di collaboratori esterni a contratto e incrementando la digitalizzazione. Ottenuti questi risultati, i dirigenti del Pentagono che avevano commissionato lo studio sono passati in breve tempo da una posizione iniziale di collaborazione a una di sostanziale chiusura, temendo che i risultati della ricerca potessero essere usati come argomento per tagliare i fondi della Difesa e spendere quel budget da qualche altra parte.
Questo esempio, e in particolare l’intervento dei dirigenti del Pentagono per cercare di seppellire lo studio che essi stessi avevano commissionato, mostra come spesso siano i funzionari preposti alla gestione della spesa i primi che si oppongono a ridimensionarla. […]
In Italia un esempio analogo si verifica nell’amministrazione dei sussidi concessi a vari soggetti privati: contributi alle scuole private, elementari e materne, agevolazioni fiscali sul carburante impiegato dai battelli che navigano sui laghi, il Fondo unico per lo spettacolo. Ciascuna di queste agevolazioni è gestita da un ufficio responsabile. […]
Cinque anni fa uno di noi (Francesco Giavazzi) fu incaricato dal governo Monti – insieme al professor Fabiano Schivardi della Bocconi e al professor Marco D’Alberti della Sapienza – di elaborare un progetto per ridurre i sussidi pubblici alle imprese. Si trattava di una cifra considerevole, circa 30 miliardi di euro, due punti di Pil. A questi si sommavano altri 30 miliardi di agevolazioni fiscali a questa o quell’impresa, spesso a quelle più abili nell’attività di lobbying. L’incarico riguardava solo i sussidi. Analizzandoli con la lente di ingrandimento, si vide che di quei 30 miliardi i veri sussidi a imprese private (una metà circa pagati dallo Stato, l’altra metà dalle regioni) erano circa un terzo, 10 miliardi. Gli altri 20 miliardi erano sussidi a imprese pubbliche (la parte del leone la fanno le ferrovie), ma anche, per esempio, alle scuole confessionali, che nel bilancio dello Stato sono classificate come imprese private. […]
Il progetto consegnato al governo Monti mostrava, sulla base dell’evidenza empirica illustrata sopra, che quei 10 miliardi avrebbero potuto essere risparmiati. Meglio ancora, avrebbero potuto essere trasformati in una riduzione del carico fiscale su “tutte” le imprese. Insomma, si sarebbe scontentato qualche privilegiato, facendo contente la maggior parte delle imprese, quelle che non ricevevano alcun sussidio. Non sorprendentemente, Confindustria si disse favorevole al progetto, pur sostenendo che la cifra totale era inferiore a 10 miliardi. Direste: è fatta! Se anche chi rappresenta le imprese che ricevono i sussidi è favorevole alla loro eliminazione, chi altro può opporsi? Invece nulla accadde e il progetto finì in un cassetto.
I motivi furono sostanzialmente due. Da un lato una quota significativa – quasi la metà – dei sussidi va a una singola categoria: le imprese di autotrasporto. La minaccia di uno sciopero degli autotrasportatori spaventa qualunque governo e puntualmente le agevolazioni sugli acquisti di carburante vengono rinnovate. Il secondo motivo è più interessante e spiega perché il ministro dello Sviluppo economico del tempo, Corrado Passera, si dimostrò tiepido verso il rapporto: questi tagli di spesa avrebbero comportato la chiusura di metà degli uffici del suo ministero. È un esempio perfetto: i sussidi non furono eliminati per l’opposizione di chi li riceveva – e di Confindustria che li rappresentava – ma per l’opposizione di chi li amministrava. Cioè dei dirigenti del ministero di via Veneto, che di fronte alla prospettiva di perdere (non il posto) ma il potere di gestire 10 miliardi di euro l’anno si sono «dati da fare». […]
Il modo in cui ciò avvenne è istruttivo. Ricevuto il progetto, il presidente del Consiglio, Mario Monti, chiese di trasformarlo in norme operative. Ma solo la burocrazia conosce le leggi e i regolamenti che sarebbe necessario modificare per cancellare ciascuna agevolazione. Si aprì così un «tavolo di lavoro» cui parteciparono i dirigenti dei ministeri coinvolti (in primis lo Sviluppo economico, ma non solo) e i funzionari della Ragioneria generale dello Stato, cioè coloro che conoscono le norme che stanno a monte di ciascun capitolo di spesa. Il cuore della Ragioneria generale, il cui compito è contenere la spesa, batteva dalla parte giusta, ma a ogni voce da eliminare i dirigenti dei vari ministeri opponevano ragioni imprescindibili che ne impedivano la cancellazione. Dopo qualche settimana di riunioni infruttuose il progetto fu abbandonato.
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lavoce.info/Quei burocrati che frenano l’Italia (Giorgio Barbieri e Francesco Giavazzi)
FRANCESCO GIAVAZZI Si è laureato in ingegneria al Politecnico di Milano nel 1972. Insegna economia politica all’Università Bocconi, della quale è stato pro-rettore alla ricerca tra il 2000 e il 2002. Tra il 1992 e il 1994 è stato dirigente generale del Ministero del Tesoro, responsabile per la ricerca economica, la gestione del debito pubblico e le privatizzazioni. Dal 1992, anno della privatizzazione, alla conclusione dell’OPA lanciata dalle Assicurazioni Generali, è stato membro del consiglio di amministrazione e del comitato esecutivo di INA s.p.a. e, in rappresentanza di INA spa, vice-presidente del Banco di Napoli dal 1998 al 2000. Fa parte del Gruppo dei consulenti economici del Presidente della Commissione europea e collabora con il Corriere della Sera e con Project Syndicate, un archivio on-line di articoli scritti da economisti di vari paesi. Redattore de lavoce.info.
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