Marcello Sorgi descrive il veleno che inquina le urne, ovvero il rapporto quasi impossibile tra i leader dei quattro partiti che hanno tentato l’impresa: Berlusconi, Renzi, Grillo, Salvini.
Il veleno che inquina le urne
A
differenza del Regno Unito, dove Theresa May ha potuto annunciarle il 18 aprile e farle celebrare ieri, dopo soli 50 giorni, in Italia le elezioni anticipate – date per scontate nelle ultime due settimane, grazie all’accordo sulla legge elettorale, e tornate in forse dopo il naufragio dello stesso – non obbediscono a nessuna regola.
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Ci si arriva per precipitazione, per non dire per disperazione, e spesso nel peggiore dei modi. Il potere di sciogliere le Camere prima della loro naturale scadenza spetta costituzionalmente al Capo dello Stato, sentiti i presidenti dei due rami del Parlamento, ma la decisione quasi mai è frutto di un accordo; piuttosto di una serie di bombardamenti politici e propagandistici che fanno tremare i Palazzi dalle fondamenta.
Anche l’ultima volta, nel 2008, quando un Mastella furioso per gli esiti di un’inchiesta giudiziaria, che lo aveva colpito insieme alla sua famiglia, affossò il governo Prodi, risultarono vani gli sforzi dell’allora presidente Napolitano per cercare di tenere in vita la legislatura, o almeno avviarla a una conclusione non caotica. Così che la prima domanda da porsi, dopo la rottura del patto a quattro che prevedeva l’introduzione del sistema proporzionale tedesco entro i primi di luglio, lo scioglimento anticipato subito dopo e il successivo voto in autunno, è se questa prospettiva, accelerata e solo apparentemente ordinata, come s’è visto, si sia dissolta insieme all’accordo tra i leader che l’avevano sottoscritto.
Per capirlo, conviene ripartire dalla genesi del patto: che aveva un padre in Berlusconi e nella sua proposta di scambio tra il sistema tedesco e le elezioni a settembre, avanzata il 21 maggio in un’intervista al «Messaggero»; un interlocutore privilegiato in Renzi, interessato soprattutto alla seconda proposta; e due soci meno prevedibili, ma indispensabili, vista la volatilità delle votazioni parlamentari nell’ultima stagione della legislatura, in Beppe Grillo e Matteo Salvini. Sommati, i quattro facevano l’ottanta per cento del Parlamento, una maggioranza a prova di bomba, che pure non ha retto all’assalto dei franchi tiratori.
Al leader Pd, che per venire incontro al Cavaliere aveva dovuto sopportare le accuse dei suoi avversari interni di partito di essersi piegato a un nuovo «patto del Nazareno», faceva gola l’idea di poter tentare, finalmente, dopo le primarie, una rivincita personale nelle urne sulla pesante sconfitta del referendum costituzionale del 4 dicembre. A Grillo il sistema tedesco conveniva: secondo alcune proiezioni, il Movimento 5 stelle avrebbe potuto perfino raddoppiare il numero dei suoi parlamentari. Per Salvini significava mani libere da un ipotetico ritorno alla coalizione di centrodestra, che da tempo gli sta stretta. Ecco perché all’inizio il patto era sembrato di ferro: i quattro firmatari erano riusciti insieme perfino a superare alcuni scogli, come quello, assai delicato, della suddivisione dei seggi tra eletti nei collegi uninominali e eletti nel proporzionale, e avevano fatto marciare spediti i loro parlamentari in commissione alla Camera.
Le prime sorprese sono arrivate mercoledì, con franchi tiratori e assenti che hanno messo a rischio le prime votazioni nell’aula di Montecitorio, e con il ripensamento di Grillo e l’annuncio della nuova consultazione della base 5 stelle attraverso la rete. Poi, ieri mattina, il disastro del voto sull’emendamento Biancofiore, che ha fatto saltare tutto per aria.
Dopo i furori, gli insulti e gli scambi d’accusa dei primi momenti seguiti al risultato distruttivo della votazione, sono in tanti adesso a dire che la frenata di Grillo, con quel che ne è seguito, è dipesa dall’appuntamento elettorale di domenica, in cui tra l’altro si vota a Genova, la città del fondatore del Movimento 5 stelle, e non è detto che i candidati stellati riescano ad entrare in ballottaggio in nessuna delle maggiori città in cui si apriranno i seggi. Per questo occorrerà aspettare lunedì i risultati del primo turno delle amministrative per sapere se la legislatura sia davvero condannata a finire senza una nuova legge elettorale. Ma che le elezioni comunali fossero fissate per l’11 e il 25 giugno si sapeva da tempo: Grillo e i suoi tre soci potevano pensarci, prima di lanciarsi nella loro paradossale avventura.
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