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Assad convinto della vittoria su Aleppo: nessuna tregua!

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e truppe di Assad sono convinte di poter travolgere i ribelli e schiacciare l’opposizione ad Aleppo. A dare il polso di quanto sta avvenendo c’è il fatto che, dopo oltre 5 anni di conflitto, gli alberghi e i ristoranti della capitale siriana sono di nuovo pieni. Giordano Stabile da Damasco racconta il clima di ottimismo che si respira.

Nella Damasco che pregusta la vittoria: “Niente tregua, schiacceremo Aleppo”

Il regime teme un’intesa Mosca-Washington per impedire l’avanzata a Nord

DAMASCO – Al posto di frontiera di Masnaa, la porta di Damasco sul Libano, mamme con i bambini in fila aspettano il via libera per rientrare nelle loro terre. Per la prima volta il flusso si è invertito. Certo, sono poche decine sul milione e mezzo di profughi che hanno passato il confine nell’altro senso, in fuga, nei cinque anni di guerra civile siriana. Gli ufficiali al controllo sono bruschi. «Li trattiamo un po’ male, all’inizio», si giustificano. «Hanno sbagliato a scappare quando le cose andavano male. Ora il vento è cambiato. Ma poi li aiutiamo. Sono i benvenuti».

Altri pullman portano pellegrini, soprattutto iracheni, che dopo una sosta a Beirut e al santuario sciita nella valle della Bekaa, vicino a Balbek, puntano verso la capitale siriana. I più, a migliaia, arrivano invece direttamente in aereo da Baghdad, Bassora, Najaf ma anche dal Kuwait e dall’Arabia Saudita, con le compagnie low cost come Shams Wing che hanno preso il posto di quella di Stato, azzoppata dalle sanzioni e rimasta con un solo aereo funzionante. Poco importa, gli alberghi in centro sono pieni, i ristoranti pure con questo turismo religioso che ha sostituito quello dall’Europa.

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Sono le contraddizioni della rinascita di Damasco. Da cinque anni e mezzo non si respirava un’aria di ottimismo come oggi. Gli uomini del regime e quelli della strada sentono la vittoria, e forse la pace, vicine. La svolta è arrivata a inizio agosto, con la resa di Dayyara, l’enorme sobborgo meridionale, che con la sua campagna si estende fino al confine libanese e a Sud fin quasi a quello giordano. Dayyara era l’incubo del governo e degli abitanti del quartiere residenziale di Mezzeh. Razzi e colpi di mortaio cadevano ogni giorno, soprattutto sul distretto 86, in cima a una collina, la roccaforte alawita della capitale.

È stata la vittoria a Dayyara, con i combattenti deportati in massa verso la provincia di Idlib secondo il modello della «riconciliazione», la resa in cambio di salvacondotto, a cambiare l’aria di Damasco. Ora il grande viale di Mezzeh, tre corsie per senso, con i bei filari di palme voluti dagli urbanisti francesi negli Anni Trenta, rigurgita di macchine. I tagli alla corrente sono passati da 12 ore al giorno a tre. Si sono riaccese le luci e il dramma di Aleppo, il massacro di civili, la popolazione senz’acqua ed elettricità, si sono improvvisamente allontanati. Nella capitale si teme soprattutto una cosa, «una nuova tregua concordata fra Russia e America» che fermi l’offensiva e allontani l’altra vittoria che si sente a portata di mano. Perché sconfiggere i ribelli ad Aleppo significa soprattutto la fine «delle mire della Turchia» sulla città. E quindi, secondo la dottrina di Bashar al-Assad, tagliare alla radice le vere ragioni della guerra in Siria.

«Ci sono tre vie per prendere Aleppo, ma in ogni caso verrà presa – puntualizza Wael Almawla, direttore della tv Al-Manar, la voce degli Hezbollah, in Siria -. Con le armi. Con un accordo internazionale. O con un accordo fra siriani, la riconciliazione. Ci aspettiamo pressioni diplomatiche almeno fino a giovedì. Poi, se non ci sarà accordo, l’opzione militare entrerà nel vivo».

Senza Aleppo, la dottrina Assad non può funzionare. Era «la città più ricca, industrializzata, riprenderla significa far ripartire tutta l’economia», nonostante i ribelli abbiano «smontato intere fabbriche e venduto i macchinari alla Turchia, che non aspettava altro».

Con la riconquista di Aleppo anche i «piani di spartizione» del Paese sono destinati a fallire, perché non c’è un’altra città, neppure Raqqa, che possa svolgere le funzioni di seconda capitale siriana. Nel bilancio annuale della Turchia, rivela ancora Almawla, sono inclusi «gli stanziamenti alle città e sono comprese anche Aleppo e Mosul, anche se solo simbolicamente: vuol dire che Ankara non ci ha mai rinunciato». E se il prezzo da pagare per la vittoria è un massacro di civili – ieri ci sono stati altri 23 morti nei raid, 115 da giovedì -, è un prezzo inevitabile, a meno che i ribelli non facciano appunto come a Dayyara, «se ne vadano a Idlib» e lascino liberi quelli che ormai sono solo «ostaggi, scudi umani».

Anche perché gli assediati di Aleppo non sono gli unici, «ce ne sono molti vittime dei terroristi». Soprattutto quelli dei due grandi villaggi sciiti di Fouah e Kefrayah, strangolati dai combattenti di Jabat al-Fatah al-Sham, l’ex Al-Nusra,cioè Al-Qaeda. Da venti giorni i familiari sono in sit-in permanente davanti al santuario di Sayyida Zeinab, la figlia di Ali, legittimo successore di Maometto secondo la linea sciita. Un campetto di calcio a poche centinaia di metri di distanza è stato trasformato in un presidio. Madri e mogli salgono su un piccolo palco e urlano al microfono la loro disperazione.

Per arrivarci bisogna fare una lunga deviazione, perché anche nella periferia Sud ci sono ancora piccole sacche di resistenza e cecchini.

La sequenza di posti di blocco, con soldati troppo vecchi o ragazzini, è lì a testimoniare quanto la guerra abbia dissanguato le forze del regime. Le donne al sit-in, sedute composte sulle seggiole di plastica bianca, con i visi smunti incorniciati dai fazzoletti neri, gli occhi che chiedono aiuto, potrebbero essere quelle di Aleppo, solo dall’altro lato delle trincee. Wafa era venuta da Fouah a trovare i parenti a Damasco. Non è più potuta tornare indietro. Da due anni non vede i quattro figli, il marito malato di cuore che non ha più medicine: «Si chiama Hassan al-Mustafa. Potete aiutarlo, per favore?». Una, cento, mille Aleppo. Questa purtroppo è la Siria.

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