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Adnkronos) – Da inizio aprile gli Usa, dopo il rilevamento dell’influenza aviaria A H5N1 ad alta patogenicità negli allevamenti di bovini da latte di alcuni Stati e un collegato caso umano (un lavoratore del settore lattiero-caseario in Texas), si interrogano sul rischio di ulteriori sviluppi della situazione.Si valutano gli scenari peggiori: che il virus si evolva ancora, diventando in grado di trasmettersi da uomo a uomo.
La domanda ricorrente: il Paese sarebbe pronto per una pandemia?Perché lo sia si lavora a strategie e si fa l’inventario di quali vaccini e armi terapeutiche potranno essere necessari.
E l’Italia come deve muoversi?Che strumenti servono per prepararsi a fronteggiare eventuali rischi? “Antivirali, vaccini”, ma non solo, spiega all’Adnkronos Salute il virologo Massimo Clementi.
Parola chiave: “Vigile attesa”, dice l’esperto. “Ad oggi – fa il punto – per quanto riguarda gli antivirali abbiamo farmaci che bloccano una delle due proteine del virus, la neuraminidasi, che sono piuttosto efficaci, anche se ovviamente entrano in gioco nel momento in cui è già iniziata l’infezione.Di preventivo c’è ovviamente il vaccino ed eventualmente anticorpi monoclonali.
Questi ultimi però devono essere anticorpi monoclonali che riconoscono l’emoagglutinina” presente sulla superficie “di questo virus”.In ogni caso, “abbiamo alcuni presidi piuttosto efficaci, ma bisogna conoscere il virus”.
E poi “c’è la possibilità di avere diverse tipologie di vaccini: il vaccino classico che si ottiene in uova embrionate è mediamente efficace ed è come quello che abbiamo utilizzato ogni anno per proteggerci nei confronti dell’influenza; più efficaci e con meno effetti collaterali sono i vaccini che sono costituiti da particelle di queste proteine, assorbite su piccole vescicole di grasso, che immunizzano il soggetto che li riceve.C’è infine sempre la possibilità, così come avvenuto per Sars-CoV-2, di sviluppare vaccini di diversa natura che però in questo momento non ci sono”. Ma per l’Italia, come per altri Paesi, “la cosa più importante in assoluto è una strategia di controllo – puntualizza Clementi – per verificare in primo luogo che cosa sta succedendo nelle specie selvatiche che arrivano da noi e non possono essere bloccate.
Serve per questo monitorare, e lo fa egregiamente nel nostro Paese l’Istituto zooprofilattico delle Venezie.E poi è anche da valutare che cosa accade negli allevamenti di diverse specie, ma in questo momento c’è veramente un monitoraggio molto stretto su questo, da quelli di animali allevati per scopi alimentari fino a quelli che lo sono per scopi diversi, come visoni, marmotte e così via.
Ma io su questo piano mi sento molto tutelato dalla struttura e dalla rete efficace che il nostro Paese ha, forse migliore di altri in questo caso.Certo, quando suona l’allarme bisogna essere in grado di rispondere a quell’allarme”. “Insomma – ripete il virologo, che per anni ha diretto il Laboratorio di microbiologia e virologia dell’ospedale San Raffaele di Milano – al momento la situazione deve essere di vigile attesa, non c’è oggi niente di clamorosamente pericoloso.
Però queste mie parole domattina potrebbero essere smentite da un nuovo evento che cambia il quadro”, avverte. “Come detto più volte, il fatto che ci sia stata una persona infettata in un allevamento non rappresenta in sé un fatto estremamente pericoloso”, perché non è sinonimo di trasmissione uomo-uomo. “Rappresenta chiaramente un evento su cui porre attenzione”. Quello che sarebbe da considerare pericoloso, conclude, “è il fatto che il virus possa diventare umano.C’è un’altra possibilità: che il virus aviario mescoli il proprio genoma con altri virus influenzali, come è successo non tanti anni fa con un virus del maiale che si era mescolato geneticamente e aveva dato luogo a un nuovo virus capace di infettare l’uomo.
Tanto che era stato avviato un allarme per una pandemia che poi è rientrato, perché in realtà si trattava di infezioni di modesta entità clinica”. —cronacawebinfo@adnkronos.com (Web Info)